Sta facendo discutere la decisione del Tg3 di pubblicare un video del momento dell’incidente della funivia Stresa-Mottarone, avvenuto lo scorso 23 maggio, che ha causato la morte di 14 persone. Il video, pubblicato ieri, è stato ripreso da diverse testate, e ha riacceso l’attenzione su un dibattito storico nella storia del giornalismo (e del fotogiornalismo in particolare), ancora di grande attualità: la responsabilità dei giornali nel dare le notizie e l’opportunità di mostrare al pubblico le immagini di eventi tragici. Vi sono state discussioni simili, di recente, anche in occasione del malore avuto dal centrocampista danese Christian Eriksen durante la partita Danimarca-Finlandia degli Europei di calcio, tenutasi lo scorso 12 giugno.
Scegliere le notizie
I giornali non possono raccontare tutto quello che accade nel mondo, ma devono compiere ogni giorno delle scelte, che devono essere motivate. Questo vale sia per le notizie che si danno, sia per quelle sulle quali si decide di tacere. A volte, in casi particolarmente rilevanti, la stessa scelta di pubblicare o meno una notizia o una immagine diventa un argomento del quale discutere pubblicamente. Talvolta, poi, le giustificazioni dei giornali non hanno l’esito sperato, e generano forti critiche da parte dell’opinione pubblica. Si è parlato molto, ad esempio, di un articolo pubblicato il 26 maggio 2020 da Open, il giornale online fondato da Enrico Mentana, intitolato “Ecco perché siamo orgogliosi di non aver dato la notizia di Silvia Romano che esce di casa per andare dall’estetista”. Nell’articolo si rivendicava la scelta di non aver raccontato una vicenda che il giorno precedente era stata ripresa dall’Ansa e da diversi giornali. Nel farlo, però, lo stesso Open la riportava nel titolo, a solo un giorno di distanza.
Il valore delle immagini
Se è vero che ogni notizia è frutto di una scelta, anche le immagini con le quali si accompagna il racconto sono l’esito di una selezione, che è un procedimento ragionato e complesso che deve tenere in considerazione molti elementi potenzialmente in contrasto fra loro. Da un lato, bisogna riflettere sul potere delle immagini, capaci di avere un impatto sul pubblico decisamente maggiore rispetto alle parole scritte o pronunciate. Celebre, in questo senso, è il caso della guerra del Vietnam, le cui immagini trasmesse in televisione favorirono la nascita di movimenti di protesta ostili al conflitto all’interno dell’opinione pubblica americana. In anni più recenti, il caso dell’omicidio di George Floyd ha generato reazioni di una tale diffusione a livello globale anche grazie al video di 9 minuti e 29 secondi che mostrava in tempo reale tutta la vicenda. Darnella Frazier, l’autrice di quella ripresa, ha recentemente ricevuto una menzione speciale da parte della commissione del premio Pulitzer, per aver coraggiosamente filmato un video che “ha stimolato le proteste contro la brutalità della polizia in tutto il mondo, evidenziando il ruolo cruciale dei cittadini nella ricerca della verità e della giustizia da parte dei giornalisti”.
I problemi etici
Bisogna però considerare anche alcune questioni etiche. Se pubblicare una notizia è utile per informare la popolazione, l’uso di determinate immagini può avere un impatto problematico, sia sul pubblico che ne fruisce, sia sui soggetti ritratti, o sui loro familiari, che potrebbero non voler vedere immagini personali, spesso particolarmente delicate, circolare e diventare di dominio pubblico. Si discute talvolta di “pornografia del dolore”, e dell’utilizzo di immagini drammatiche per generare attenzione su un tema problematico. È una questione che spesso ruota attorno alle immagini promozionali di alcune organizzazioni umanitarie, finalizzate a raccogliere fondi a sostegno di progetti in aiuto delle zone più povere del mondo. L’intento è senz’altro nobile, ma la scelta delle immagini utilizzate genera spesso discussioni. In ambito giornalistico, un caso celebre è stato, nel 2015, quello che ha riguardato la fotografia di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni morto nel Mediterraneo mentre cercava di raggiungere l’Europa. L’immagine del bambino su una spiaggia turca ebbe all’epoca un’enorme risonanza mediatica, che fu giustificata dalla necessità di mostrare al mondo la tragicità delle rotte migratorie, ma che ricevette anche numerose critiche.
Le decisioni dei giornali
Ultimamente, però, la decisione spetta alle redazioni dei singoli giornali. In merito alla decisione del Tg3, il direttore della Rai Marcello Foa ha dichiarato: “ Sono profondamente colpito dalle immagini trasmesse dal Tg3. È doveroso per il servizio pubblico, in circostanze come questa, valutare attentamente tutte le implicazioni, a cominciare da quelle etiche e di rispetto per le vittime e per i loro familiari, nella consapevolezza del peso mediatico ed emotivo di ogni immagine e di ogni commento”. Il Post, diretto da Luca Sofri, ha deciso di pubblicare il video, senza dargli particolare risalto, preceduto da un disclaimer che avvisava il lettore del contenuto della clip, e ha accompagnato la notizia con un articolo che spiegava la decisione della testata. “Ha prevalso l’idea”, scrive il Post, “che quel video – come tanta parte del giornalismo fotografico e video da sempre – aggiunga alla comprensione di ciò che è successo, permetta di vederlo, e di capire più esattamente che cosa sia stato l’evento di cui si è molto parlato e discusso nelle scorse settimane, e che è stato così drammatico e rilevante nella storia di quest’anno e di quei luoghi.”. La libertà del giornalismo di raccontare i fatti, però, “non può raccontarsi assoluta, ma va sempre equilibrata con il rispetto, la discrezione, e soprattutto la consapevolezza non ipocrita di aver riflettuto sulla propria scelta: da cui le decisioni possono essere diverse, e legittime”. Altri giornali, come il Sole 24 Ore, hanno deciso di non pubblicare le immagini, poiché “nulla aggiungono alla cronaca dei fatti”.
A conclusione della vicenda, è arrivata una dichiarazione da parte del procuratore di Verbania, che ha dichiarato vietata la diffusione delle immagini del crollo. In una nota si legge infatti: «Si tratta tuttavia, di immagini di cui, ai sensi dell’art. 114 comma 2 c.p. p. è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benchè non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari».