43.000, di cui quasi la metà bambini, sono i morti palestinesi fino a oggi secondo il Ministero della Salute di Gaza: morti di un genocidio e non di una guerra, e a dimostrarcelo sono i numeri, le parole e il diritto internazionale.
Lo chiamiamo genocidio perché guerra, nel suo orrore, è quella che si fa tra Stati per la risoluzione di una controversia internazionale, non quella che si fa indistintamente contro militari, civili, bambini, quelli che all’alba del 7 ottobre 2023 Benjamin Netanyahu, Primo Ministro di Israele, definiva “animali umani contro cui combattere”. Lo chiamiamo genocidio perché così ha voluto il diritto internazionale nel 1948 con l’adozione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio adottata dall’ONU.
Secondo la Convenzione il genocidio è ciascuno degli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Tra gli atti in questione c’è ad esempio la sottoposizione a condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica, totale o parziale di una comunità, come quando i palestinesi sono stati spinti a lasciare Gaza considerata troppo pericolosa per spostarsi a Rafah, dove non hanno raggiunto una cosiddetta “zona sicura”, ma il luogo dove sono morti durante la notte colti alla sprovvista da decine di bombe.
Lo chiamiamo genocidio, perché così ha deciso la Corte Internazionale di Giustizia, o quasi, riconoscendo nella prima fase del processo a Israele intentato dal Sudafrica, attualmente ancora in corso, che esiste un rischio reale e imminente di pregiudizio irreparabile ai diritti protetti dalla Convenzione sul Genocidio. In altre parole la Corte non ha dichiaratamente accusato Israele di genocidio in questa prima fase del processo, ma ha ammesso che esistono i presupposti per ritenere valida l’accusa di genocidio in una seconda fase, quella di merito.
È un genocidio silenzioso perché invisibile agli occhi dei più; ma chiamiamolo con il suo nome.