Autoscatti di vanità
Il conformismo della bellezza 2.0
Scattarsi una foto non ha mai fatto male a nessuno: il problema nasce se da quello scatto dipende la nostra autostima. Se i like su Facebook sono più importanti della percezione di sé
Maria Chiara Parisi | 14 aprile 2014
Oxford Dictionary aveva scelto il termine “Selfie” come parola dell’anno 2013 e di certo non si sbagliava. Nel giro di pochissimo tempo questo fenomeno fotografico ci ha mostrato su tutti i social network le pose più bizzarre, rigorosamente autoscattate. Questa tendenza, apparentemente innocua, consiste nel fotografarsi: non importa come, dove, con chi. L’obiettivo è quello, non di pubblicare foto come dovrebbe essere, ma di ricevere il consenso sui social network: ammettere il contrario nella maggior parte dei casi è un’ipocrisia. Anzi sarebbe meraviglioso poter vedere tutte le foto di queste piattaforme senza alcun ritocco, più divertenti e meno seriose. Proprio qui infatti sta il nodo della questione: non è la vita reale.
Un selfie non parla di noi
Facebook o Instagram non possono valere quanto una foto che nessuno vedrà mai, ma che è appesa in camera. Non si compie nessun delitto facendosi una foto, ma almeno ci sia la consapevolezza che si tratta di un’immagine, non di noi stessi. In un certo senso è la nostra materia ad essere riprodotta, non quello che siamo noi realmente. Allora perché modificare le foto per apparire migliori, perché tentare di assomigliare a tutti i costi a qualcuno che non siamo, perché seguire la massa e mettersi tutti nella stessa posa? È il frutto di un condizionamento sociale, secondo cui l’appagamento dei piaceri sensoriali è più importante. Bene: ma quindi esiste un ideale di bellezza univoco? Decisamente no: i canoni estetici cambiano con il corso dei secoli. Nel ‘700 le donne dovevano essere pasciute, ora più si è magri meglio è; qualche anno fa ci fu il boom della pelle iperabbronzata che nel Medioevo era prerogativa dei contadini. Per non parlare dei capelli: prima gli spartani con i boccoli, poi Luigi XVI e Maria Antonietta con le parrucche, ora tutte con lo shatush. Allora è il concetto di bello che cambia sempre oppure è l’essere umano che per essere accettato dalla società si vuole conformare ad essa in ogni modo? È evidente che sia la seconda, anche perché se fosse la prima nessuno avrebbe problemi ad esprimere la propria idea estetica come meglio crede.
L’eterno dilemma tra essere e apparire
Il “diverso” fa paura, perché si è spinti a confrontarsi con ciò che non si conosce e si teme di non essere all’altezza. Quindi meglio ritoccarsi, omologarsi, privarsi della propria personalità a favore di quella della maggioranza. Non solo nelle foto, anche nella vita vera.
L’apparire scavalca prepotentemente l’essere, nonostante senza quest’ultimo non possa sussistere. Avete mai visto qualcosa che appare senza che sia realmente qualcosa? No. È una grave perdita di coscienza della propria esistenza. La nostra apparenza cambia, è mutevole, siamo essere umani, soggetti a generazione e corruzione. È normale avere difetti, non è normale essere perfetti, o meglio è impossibile, perché siamo uomini. Ma è proprio in questo che risiede la nostra straordinaria bellezza. Eppure, un insignificante dettaglio che non va fa crollare l’autostima ed esacerbare l’autocritica.
Se non si modifica solo la foto
Nei giovanissimi la rinoplastica, il lifting alle palpebre e l’uso del botox sono aumentati del 10% secondo i chirurghi statunitensi. Queste modifiche del corpo danno qualche soddisfazione a lungo termine? No. Siamo al punto di partenza, è solo mero appagamento, non la felicità. Felicità è farsi una foto insieme agli amici, felicità è non doversi stare a preoccupare di ritoccarla e poi di cambiare se stessi, felicità è accettarsi con i propri difetti, andando oltre la mediocrità della società per riscoprirsi nella propria unicità. «Nella natura umana, la capacità di nutrire i sentimenti più nobili è il più delle volte una pianta molto tenera, che muore facilmente, uccisa non soltanto dalle influenze ostili, ma anche solo da mancanza di sostentamento; e nella maggioranza dei giovani muore rapidamente, se le occupazioni cui li assegna la loro vita, e l’ambiente sociale cui quella posizione li ha inseriti, non sono favorevoli a mantenere in esercizio le capacità più elevate». John Stuart Mill, 1861. Un perfetto identikit della nostra attuale società. Mill non avrebbe mai potuto immaginare i social network, ma il suo discorso è pregnante di significato se applicato a questo tema.
L’idea di bellezza è soggettiva
Può darci molta più soddisfazione un’immagine divertente in compagnia perché è un ricordo, non la finta copia di qualcosa che non esiste. Il fine delle foto è proprio questo: mostrare qualcosa che esiste; se questo non si realizza, non ha senso la foto. I canoni estetici non sono la vera bellezza, altrimenti non cambierebbero conformandosi alla società. L’idea di bellezza è quanto più esiste di soggettivo. Come potrà mai essere bello il viso ritoccato allo stesso modo dallo stesso chirurgo?
Estetica nel suo significato originale vuol dire apertura disinteressata nei confronti di ciò che è bello. “Disinteressata” perché non si risolve con il bisturi, con Photoshop, con un aiuto esterno, ma solo in noi stessi. “ La bellezza è negli occhi di chi vede”, diceva Kant: in questo caso anche di chi scatta.
Un selfie non parla di noi
Facebook o Instagram non possono valere quanto una foto che nessuno vedrà mai, ma che è appesa in camera. Non si compie nessun delitto facendosi una foto, ma almeno ci sia la consapevolezza che si tratta di un’immagine, non di noi stessi. In un certo senso è la nostra materia ad essere riprodotta, non quello che siamo noi realmente. Allora perché modificare le foto per apparire migliori, perché tentare di assomigliare a tutti i costi a qualcuno che non siamo, perché seguire la massa e mettersi tutti nella stessa posa? È il frutto di un condizionamento sociale, secondo cui l’appagamento dei piaceri sensoriali è più importante. Bene: ma quindi esiste un ideale di bellezza univoco? Decisamente no: i canoni estetici cambiano con il corso dei secoli. Nel ‘700 le donne dovevano essere pasciute, ora più si è magri meglio è; qualche anno fa ci fu il boom della pelle iperabbronzata che nel Medioevo era prerogativa dei contadini. Per non parlare dei capelli: prima gli spartani con i boccoli, poi Luigi XVI e Maria Antonietta con le parrucche, ora tutte con lo shatush. Allora è il concetto di bello che cambia sempre oppure è l’essere umano che per essere accettato dalla società si vuole conformare ad essa in ogni modo? È evidente che sia la seconda, anche perché se fosse la prima nessuno avrebbe problemi ad esprimere la propria idea estetica come meglio crede.
L’eterno dilemma tra essere e apparire
Il “diverso” fa paura, perché si è spinti a confrontarsi con ciò che non si conosce e si teme di non essere all’altezza. Quindi meglio ritoccarsi, omologarsi, privarsi della propria personalità a favore di quella della maggioranza. Non solo nelle foto, anche nella vita vera.
L’apparire scavalca prepotentemente l’essere, nonostante senza quest’ultimo non possa sussistere. Avete mai visto qualcosa che appare senza che sia realmente qualcosa? No. È una grave perdita di coscienza della propria esistenza. La nostra apparenza cambia, è mutevole, siamo essere umani, soggetti a generazione e corruzione. È normale avere difetti, non è normale essere perfetti, o meglio è impossibile, perché siamo uomini. Ma è proprio in questo che risiede la nostra straordinaria bellezza. Eppure, un insignificante dettaglio che non va fa crollare l’autostima ed esacerbare l’autocritica.
Se non si modifica solo la foto
Nei giovanissimi la rinoplastica, il lifting alle palpebre e l’uso del botox sono aumentati del 10% secondo i chirurghi statunitensi. Queste modifiche del corpo danno qualche soddisfazione a lungo termine? No. Siamo al punto di partenza, è solo mero appagamento, non la felicità. Felicità è farsi una foto insieme agli amici, felicità è non doversi stare a preoccupare di ritoccarla e poi di cambiare se stessi, felicità è accettarsi con i propri difetti, andando oltre la mediocrità della società per riscoprirsi nella propria unicità. «Nella natura umana, la capacità di nutrire i sentimenti più nobili è il più delle volte una pianta molto tenera, che muore facilmente, uccisa non soltanto dalle influenze ostili, ma anche solo da mancanza di sostentamento; e nella maggioranza dei giovani muore rapidamente, se le occupazioni cui li assegna la loro vita, e l’ambiente sociale cui quella posizione li ha inseriti, non sono favorevoli a mantenere in esercizio le capacità più elevate». John Stuart Mill, 1861. Un perfetto identikit della nostra attuale società. Mill non avrebbe mai potuto immaginare i social network, ma il suo discorso è pregnante di significato se applicato a questo tema.
L’idea di bellezza è soggettiva
Può darci molta più soddisfazione un’immagine divertente in compagnia perché è un ricordo, non la finta copia di qualcosa che non esiste. Il fine delle foto è proprio questo: mostrare qualcosa che esiste; se questo non si realizza, non ha senso la foto. I canoni estetici non sono la vera bellezza, altrimenti non cambierebbero conformandosi alla società. L’idea di bellezza è quanto più esiste di soggettivo. Come potrà mai essere bello il viso ritoccato allo stesso modo dallo stesso chirurgo?
Estetica nel suo significato originale vuol dire apertura disinteressata nei confronti di ciò che è bello. “Disinteressata” perché non si risolve con il bisturi, con Photoshop, con un aiuto esterno, ma solo in noi stessi. “ La bellezza è negli occhi di chi vede”, diceva Kant: in questo caso anche di chi scatta.
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