Attualità
Focus: cyberbullismo
Senza via d'uscita
Secondo gli ultimi dati Istat un ragazzo su due fra gli 11 e i 17 anni ha subìto nell’ultimo anno uno o più episodi offensivi. Qual è il discrimine fra offesa e bullismo? E cosa spinge vittima e bullo nei loro rispettivi ruoli?
La Redazione | 5 febbraio 2016

Adesso sarete contenti”. Forse non ci siamo soffermati abbastanza su queste tre parole laconiche, presi come siamo dalla velocità di lettura delle notizie e dal fatto che, purtroppo, siamo sempre più abituati. Ma la frase con cui ha apostrofato i compagni di scuola la dodicenne di Pordenone che qualche giorno fa ha tentato il suicidio è molto simbolica e comunica più di tante parole spese sul tema. Il bullismo esiste, è sempre esistito, ma con i social network si amplifica esponenzialmente i danni che può arrecare. Perché la vergogna che si prova ad essere presi in giro pesa molto di più se la platea è un network di milioni di persone. Perché, anche se sembra scorrere veloce, il web non dimentica così facilmente. 

L’ultimo rapporto Istat “Il bullismo in Italia: comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi” ci mostra una fotografia non troppo rosea. Oltre il 50% degli adolescenti fra gli 11 e i 17 anni ha dichiarato di aver subìto episodi offensivi nell’ultimo anno. Da atti di violenza fisica, come spintoni e pugni, a insulti e offese o prese in giro: queste le tipiche azioni che colpiscono quelle che solitamente vengono chiamate vittime. Certo, non tutto è identificabile come bullismo. Spiega il prof. Tonioni dell’Istituto di Psichiatria e Psicologia dell’Università Cattolica di Roma: «Non confondiamo gli atti di aggressività con il bullismo. C’è bullismo quando un ragazzo vive un’esperienza persecutoria: quando sei aggredito ma poi ti senti anche senza via di fuga. Una componente discriminante del bullismo poi è la visibilità: se gli spettatori che assistono a un episodio di bullismo si voltassero tutti dall’altra parte, il gesto del bullo automaticamente si depotenzierebbe. Gli spettatori hanno quindi un ruolo inconsapevolmente attivo e sul web questo aumenta ovviamente a dismisura». Secondo il rapporto Istat, le ragazze sono più di frequente vittime di cyberbullismo (7,1% contro il 4,6% dei ragazzi). Più in generale, il fenomeno sembra colpire i più giovani fra gli adolescenti: circa il 7% dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni ha dichiarato di essere stato oggetto di prepotenze online e la percentuale scende al 5,2 per i ragazzi più grandi. 

Il primo passo per non sentirsi senza via di fuga e non arrivare a commettere atti sconsiderati è confidarsi ed eventualmente seguire una terapia. A questo scopo è nato presso il policlinico “Gemelli” di Roma uno sportello per il cyberbullismo, presieduto dal prof. Tonioni.

«Lo sportello è la naturale integrazione del precedente servizio sugli abusi del web, sempre rivolto agli adolescenti. Da pochissimo è diventato un vero e proprio centro interdipartimentale che si interfaccia con il reparto di neuropsichiatria infantile e con quello di pediatria, al fine di dare una visione più completa dei percorsi clinici di bambini e adolescenti. Dal 2009 abbiamo avuto 1200 pazienti in prima visita: lavorare con gli adolescenti è bellissimo, è come mettere le mani nella creta fusa. Devi farti usare e aiutarli a fare da soli».

Presso l’ambulatorio vengono più facilmente quelle che chiamiamo vittime, o i loro genitori: «Noi abbiamo un’invasione di genitori e le terapie che funzionano di più sono quelle in cui sono loro a mettersi in discussione. Non dobbiamo dimenticare che le disarmonie dei nuovi adolescenti oggi hanno quasi sempre a che fare con nuove forme di adolescenza genitoriale. È la prima volta nella storia dell’evoluzione umana che i figli ne sanno più dei genitori su un campo delicatissimo e pervasivo come quello della tecnologia, di internet, dei social network e degli smartphone. Al tempo stesso, poi, c’è anche una precocizzazione dell’infanzia. Chi ce li mette i bambini davanti all’iPhone se non i genitori stessi, magari per tenerli buoni davanti a un video? Le nuove tecnologie vengono usate troppo spesso per sostituire la presenza genitoriale, non per condividere».

E poi davanti a quello schermo impariamo che non diventiamo rossi, anche se ci emozioniamo e proviamo vergogna, che la rete è un formidabile mezzo per compiere delle azioni e nascondersi. E se su questa grande opportunità fornita dalla tecnologia si innesta una personalità con determinate caratteristiche, ecco spiegato il proliferare di episodi di aggressività sul web, che poi sfociano anche in atti di cyberbullismo. Nessuno nasce vittima o bullo, ovviamente, ma ci sono delle predisposizioni che per il prof. Tonioni affondano le loro radici nell’infanzia, molto prima che bullo e vittima si incontrino: «Quello che contraddistingue chi subisce atti di bullismo è la vergogna. Solitamente le vittime si sono vergognate da piccolissimi e non hanno potuto riparare. Sono bambini traumatizzati da mamme e papà inconsapevoli naturalmente, ma che hanno dato questa predisposizione. Di contro, se un bambino vince con i suoi amichetti e sente di pancia che il papà lo ama e che invece lo ama meno quando perde, probabilmente sarà predisposto a tenere un atteggiamento di prevaricazione». In entrambi i casi, dunque, c’è un uso disfunzionale dell’aggressività: essere aggressivi, in senso lato, non è un male. 

Significa lottare per farsi spazio nel mondo: se è usata per qualcosa di costruttivo, l’aggressività è positiva, altrimenti diventa rabbia e a quel punto nascono i problemi. Secondo l’esperienza dello sportello, è più facile una terapia con un bullo: «La psicoterapia con un bullo mira a renderlo empatico: nel momento in cui si rende conto dell’accaduto e riesce a mettersi al posto dell’altro, può cominciare a sentirsi in colpa. Diversamente, le vittime tendono a farti sentire impotente, proprio per comunicare il senso di impotenza che avvertono loro di fronte alla situazione. Per quello parliamo di mancanza di via di uscita. Per loro è impossibile venirne fuori. Le vittime non hanno bisogno di atti di bontà, ma di essere capite».

Il non sentirsi compresi sfocia poi in reazioni autolesive, nel migliore dei casi con manifestazioni psicosomatiche come la febbre, ma purtroppo a volte comporta depressione e atti estremi. È la sublimazione di quella aggressività mal orientata, che diventa rabbia verso se stessi. Quella stessa, dura e terribile rabbia che risuona in quelle tre parole: “Adesso sarete contenti”.

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