Attualità
#QuellaVoltaChe, il libro: intervista a Giulia Blasi
Dai post su Internet alla carta stampata: quando "l'hashtag diventa libro"
Chiara Colasanti | 9 marzo 2018

Oggi, durante "Feminism - la fiera dell'editoria delle donne" è stato presentato "#QuellaVoltaChe - Storie di molestie"; abbiamo raggiunto telefonicamente Giulia Blasi, la scrittrice e giornalista che il 13 ottobre ha lanciato l'hashtag per farle le domande della nostra giovane reporter Chiara Cataldi.

Ieri, 8 marzo, è stata la giornata internazionale delle donne. Secondo te, che significato ha oggi questa ricorrenza e che cosa potrebbe continuare a dire, considerando che l'auspicata parità dei sessi ancora non è stata raggiunta?
Premesso che io parto dalla mia bolla e la mia bolla ovviamente è molto femminista, quindi nella mia bolla è stato tutto molto articolato, tutto molto bello, fuori dalla mia bolla la gente ti fa gli auguri; fuori dalla mia bolla non si è capito nulla di quella che è la giornata internazionale della donna. Devo dire che quest’anno, facendo la tara al fatto che il femminismo e i diritti delle donne sono argomenti di nicchia, secondo me c’è stato un piccolo progresso, un piccolo ampiamento del discorso. Si comincia a parlarne in maniera meno sciocca, meno superficiale, meno “ti regalo le mimose” e più in termini di riconoscere che non si tratta di una giornata celebrativa, ma di riflessione e di lotta. Secondo me le cose stanno cambiando, molto lentamente, ma c’è stato un piccolo spostamento in quel senso. Noi andiamo comunque verso un progresso, a meno di strappi radicali, di racconti dell’Ancella improvvisi, noi andiamo comunque verso il progresso; difficile che si vada verso il regresso senza una considerevole opposizione o dei ritardi temporanei. In questo preciso momento l’argomento è molto caldo, molto sentito, molto vivo e quindi si è avvertita questa consapevolezza anche al di fuori delle solite bolle.

Doris Lessing ha scritto: "È piuttosto strano, ma solo con un grandissimo sforzo di volontà non mi sento una puttana". Quanto credi che questo senso di colpa persista nelle donne che "solo" ora hanno deciso di denunciare anche grazie all’hashtag #quellavoltache che le ha fatte uscire allo scoperto sui social?
Moltissimo: non è che ci sia una grande collaborazione da parte della società nel farci non sentire in colpa o in difetto o oppresse dalla vergogna per cose che ci sono state fatte, non che abbiamo fatto noi. Questa oppressione è ancora fortissima e lo vediamo ogni giorno nel trattamento che viene riservato alle donne che subiscono molestie e violenze sessuali ed è proprio su quello che dobbiamo lavorare: sulla rimozione del senso di vergogna, sulla protezione delle vittime non nel senso “ti proteggo io”, ma nel sostegno, nell’ascolto delle persone che subiscono violenza sessuale e contemporaneamente nel far capire che ci sono delle azioni che non sono corteggiamento. Questa differenza la devono capire gli uomini, non le donne che hanno capito benissimo la differenza tra corteggiare e tormentare. Parallelamente bisogna lavorare a una liberazione della sessualità ulteriore che esca dal binomio santa/mignotta e vada verso una sessualità anarchica in cui le donne si sentano veramente libere di esprimere il desiderio sessuale, pure in maniera rispettosa. Non devono diventare sessualmente aggressive come la cultura maschile chiede di essere agli uomini: non dobbiamo diventare anche noi così, ma che si arrivi a una maggiore apertura, a un maggiore scambio tra le persone. Parlarsi, ascoltarsi, guardarsi, capirsi, interpretarsi, leggersi, cosa che in questo momento non succede: siamo tutti ancorati a rituali e non prestiamo attenzione all’ascolto.

A distanza di pochi mesi, questo "urlo collettivo" si è attenuato; ora è uscito il libro in cui avete raccolto alcune delle testimonianze che sono state condivise con l’hashtag #quellavoltache. Com’è possibile mantenere viva la scintilla che si è accesa, cercando di evitare che si torni a nascondere quello che ha già ferito abbastanza queste donne?
Non credo che sia possibile fare a oltranza quello che è stato fatto alla fine dell’anno scorso; credo che quello sia stato uno strappo. Gli strappi sono improvvisi e durano poco: è la loro natura. Un hashtag che dura due settimane è già un’altra cosa, non è una cosa momentanea: c’è già qualcosa di permanente in quello che è successo. Abbiamo deciso di fare il libro perché volevamo che quella immaterialità percepita della Rete diventasse carta, diventasse evento, diventasse cosa che può essere messa nelle mani delle persone. Il discorso continua, continua il dibattito, continua la spinta verso una nuova coscienza collettiva del fenomeno, una presa di coscienza da parte di chi subisce le violenze del fatto che quella che sta subendo è una molestia, perché spesso non viene percepita come tale, viene normalizzata. Magari ti fa arrabbiare, non sai perché, pensi di doverla subire per forza perché ti tocca, perché sei una donna o semplicemente perché è così e non ci puoi fare nulla. Una nuova presa di coscienza e spero che lì dove ci sono delle molestie, dei casi di oppressione, di ricatto sessuale, ci sia anche chi interviene in qualche modo, sia con la solidarietà tra donne, parlandosi e accordandosi per consegnare a una forma di giustizia il molestatore. Sappiamo che denunciare le molestie in Italia è una cosa quasi impossibile perché banalmente è molto difficile configurare il reato, però è possibile in qualche modo creare consapevolezza e fare in modo che le persone che hanno molestato siano in qualche modo punite, anche se non è possibile assicurarle alla giustizia. Purtroppo continuerà a essere così fino a quando non verrà fatta una legge seria che cominci a mettere un po’ di paletti e cominci a definire meglio i comportamenti scorretti. È un lavoro lungo, non possiamo aspettarci che finisca domani. La cosa migliore è che questa conversazione che stiamo avendo si inserisca in una nuova ondata di femminismo aperto, socialmente accolto, socialmente accettato, ascoltato, sostenuto dai media nazionali, cosa che in questo momento non sta ancora succedendo. Ci dobbiamo prendere degli spazi seri, uscire dai collettivi.

Su Zai.net abbiamo una rubrica, “Quello che le donne non meritano”, in cui i ragazzi analizzano spot che fanno passare immagini stereotipate del ruolo e del corpo della donna: il primo che le viene in mente che vorrebbe cancellare dalla faccia della terra? 
In questo momento non me ne viene in mente uno specifico; ce ne sono tanti… quando li vedo mi vengono i cinque minuti e poi non ci penso più. Questa cosa è talmente normalizzata che non è solo uno spot o un brand: lo fanno tutti! In generale mi arrabbio moltissimo quando vedo le pubblicità in cui si parla delle mamme che dovrebbero fare una cosa o l’altra per il benessere dei loro bambini. L’idea che ci sia solo un brand che utilizza un testimonial uomo che racconta quello che dà da mangiare alla figlia mi manda ai matti. Tutti gli altri hanno delle campagne in cui ci sono i bimbi che ripetono “brava mamma che hai disinfettato il pavimento!” o “che hai usato questo o quest’altro”: sono cose terribili. 
Sull’uso del corpo della donna si va dagli eccessi della pubblicità di provincia in cui si usa il pecoreccio per vendere qualsiasi cosa: dagli elettrodomestici alle imprese di pulizie, a un eccesso di attenzione sulla biancheria intima. Quando devi vendere un reggiseno è un po’ difficile venderlo se non ci metti una donna dentro, no? Lì si può chiaramente lavorare su una serie di cose, ma è difficile non usare il corpo di una donna per vendere una cosa che deve essere attaccata al corpo di una donna. Mi arrabbio di più quando vedo pubblicità che riportano stereotipi di genere molto bruttini, appunto quelli delle donne che in casa puliscono e cucinano e basta, oppure i classici spot in cui la mamma ha il mal di gola, deve fare tutto il papà e si scatena il panico. Papà di solito cosa fa? Sta lì e la guarda di solito?

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