Che lo si voglia affrontare da un punto di vista storico o connotarlo nei suoi elementi più mitici, il racconto epico è materia ostica per ogni regista. Per questo (ma non solo) “Il primo re” è di per sé un progetto ambizioso, un unicum in un panorama italiano ancora particolarmente lontano, materialmente e intellettualmente, da questo genere di produzioni. La regia di Matteo Rovere lascia da parte gladiatori e toghe purpuree portando sulla scena un’inedita fase ante rem: Alessio Lapice e Alessandro Borghi sono Romolo e Remo, un ancestrale senso di appartenenza lega un fratello all’altro, un fatale destino di morte e redenzione porterà i due a una inevitabile separazione. “Il Primo re” è un film drammatico-storico.
La trama, semplice e sottile, ripercorre le tappe che portarono alla fondazione di Roma nel 753 a.C., dando spazio a una messinscena forte e d’impatto. La rievocazione del brutale mondo arcaico del territorio laziale viene enfatizzata da una recitazione prettamente fisica, giocata sui gesti e sugli sguardi più che sul fraseggio in protolatino. I 127 minuti diretti dal regista romano, che ha dichiarato di essersi ispirato ad opere come Revenant (Inarritu) e Apocalypto (Gibson), scorrono in un’atmosfera di mistico realismo che non lascia particolare spazio ad effetti speciali (presenti per la maggior parte nei primi frammenti) e a manierismi da kolossal, in una commistione tra fantasy ed autenticità che invece sembra più riallacciarsi alla serie cult HBO Game of Thrones. Un’ambientazione storicamente precisa e corretta, grazie alla consulenza di un team di esperti dell’Università La Sapienza, rende più realista il prodotto.
Azzeccata la selezione del cast: il carismatico Remo di Borghi si impone sulla scena fin dai primi minuti, complice una costruzione del personaggio sicuramente più completa rispetto a quella del co-protagonista Romolo (Alessio Lapice), sebbene entrambe le personalità non abbiano il tempo di svilupparsi coerentemente, affannando in un repentino succedersi di decisioni sommarie e bruschi rivolgimenti.
Fil rouge del lungometraggio è quella densa, universale tematica del rapporto-scontro tra uomo e divinità, sacro e profano, libero arbitrio e destino. Affrontata egregiamente da una sceneggiatura che raggiunge picchi di lirismo nella sua generale semplicità, in un intenso dialogo visivo tra una fragilmente dignitosa umanità e una dirompente e ambigua natura, che fa passare in secondo piano gli elementi carenti del film, rendendolo uno dei prodotti italiani più interessanti degli ultimi anni.