Cinema e Teatro
Ariaferma
Abbiamo incontrato Leonardo di Costanzo durante una delle sue tappe di presentazione del film Ariaferma, nel tour organizzato da Fice Emilia-Romagna
Liceo Toschi di Parma | 3 marzo 2022

Recensione di Ariaferma (Damiano Galafassi)

Per una volta ci viene chiesto di usare la mente e non solo la vista. Ariaferma è l’ultimo film di Leonardo Di Costanzo, presentato fuori concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia. Il lungometraggio è ambientato dentro un carcere ottocentesco, immerso tra le colline e i boschi, lontano dal resto della società.


La prigione deve essere chiusa e i detenuti trasferiti. A causa di alcuni problemi burocratici, però, un piccolo gruppo di carcerati, controllati da pochi agenti, deve rimanere ancora lì dentro fino a nuovi ordini. Durante questo tempo sospeso il rapporto tra agenti penitenziari e detenuti inizia a cambiare, con soluzioni per niente scontate.


Di Costanzo non ci mostra una storia specifica presa dalla realtà: il carcere stesso diventa un luogo simbolico che rappresenta un ambiente e dinamiche più generali. Il disorientamento temporale contribuisce a rappresentare una storia senza tempo. Narrare una storia che racchiuda in sé le vicende, le storie e i problemi di tutte le carceri, è impossibile. L’indagine del regista è rivolta più al lato umano e alle relazioni che si creano tra gli uomini che condividono questo micro-mondo.


Lo stesso regista ha affermato che “per raccontare la profonda verità di qualcosa, non basta filmare la realtà così per com’è”. La soluzione sta nel trasformare, cambiare il consueto, in funzione di un messaggio più profondo. Viene chiesto uno sforzo allo spettatore, che non può limitarsi a guardare passivamente il film, ma deve ragionare e pensare oltre quello che vede.

 

Intervista al regista Leonardo di Costanzo

Abbiamo incontrato Leonardo di Costanzo durante una delle sue tappe di presentazione del film Ariaferma, nel tour organizzato da Fice Emilia-Romagna.

Da dove nasce l’idea del film?
Visitando molte carceri mi sono reso conto che aldilà delle ostilità e dei momenti di tensione, detenuti ed agenti sono entrambi esseri umani. La cosa che più mi commuove è che ad un certo punto ci sono uomini che devono chiudere altri uomini in una cella. Volevo raccontare una storia in cui queste persone - che solitamente sono divise dai cancelli - fossero insieme, ci fosse un momento in cui per un attimo queste sbarre potessero aprirsi.

Ha voluto raccontare la storia dal punto di vista degli agenti di polizia penitenziaria?
Il mestiere di chiudere le persone in gabbia è un atto violento sia per chi lo fa che per chi lo subisce. Puoi trovare due tipi di poliziotti: quelli che avvertono questo gesto come violento e pensano a come si potrebbe fare meglio e cercare alternative, oppure persone che diventano più cattive di quanto non siano. Non si può restare neutrali di fronte a questa cosa. Il carcere per ognuno di noi è un luogo di violenza, per cui gli spettatori non si aspettano di trovare un momento di comunità. Io dico un’altra cosa. Mostro la relazione tra due persone che vengono dallo stesso quartiere, persone semplici: uno ha preso una strada e l’altro ne ha presa un’altra. Il male è qualcosa che sta a fianco a noi e tutti quanti possiamo in un momento o l’altro incontrarlo. Quindi non credo che ci sia solo il punto di vista degli agenti ma di entrambe le parti.

Ha intervistato agenti di polizia penitenziaria e detenuti prima di scrivere il film? Cosa le hanno raccontato?
Tra gli attori che hanno recitato c’erano sia ex detenuti che ex agenti. Nel film convivono grandi attori e attori non professionisti, perché io lavoro sempre anche con attori non professionisti, scelti tra persone che sono molto vicine ai personaggi che andranno ad interpretare. C’era sul set un ex detenuto che poi è diventato attore, è venuto in Sardegna qualche giorno prima delle riprese, ma non voleva entrare nel carcere, stava nel piazzale e non riusciva ad entrare.

L’impatto della pandemia nelle carceri (Matilde Galli)

Tra le persone che hanno subito conseguenze più gravi dalla pandemia di Covid-19 ci sono i detenuti. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è una conseguenza dell’estensione di una gamma di crimini considerati punibili con la detenzione, ma anche di una scarsa riorganizzazione del sistema carcerario.

Il sovraffollamento delle carceri
Già prima della pandemia in Italia si registrava il dato peggiore d’Europa con una media di 100 posti disponibili per 120 detenuti. Il paese che presentava il dato migliore in Europa è la Germania con 69 detenuti su 100 posti. Prima della pandemia all’interno dei carceri italiani erano rinchiuse circa 62 mila persone con una capienza pari a 50mila, quarto paese Ue dopo Polonia, Francia e Germania.

La pandemia
La pandemia ha peggiorato gli spazi già ridotti, le scarse condizioni igieniche, rispetto del
protocollo sanitario e il distanziamento sociale. La sospensione dei colloqui con i familiari ha causato violente proteste sia da parte dei cittadini che dei detenuti. Oltre ai colloqui sono state sospese per lungo tempo anche le attività lavorative, creative, educative e ricreative nelle carceri. A lungo andare queste misure si sono inasprite fino ad arrivare alla sospensione totale.

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