Genova. Se il pubblico è sul palco
George Orwell versione 2.0
Il capolavoro dello scrittore scozzese torna sul palco “invecchiato” di mille anni per inventare un domani raccontando l'oggi, in una riscrittura dove ogni rappresentazione è diversa
Andrea De Sotgiu | 2 febbraio 2012
Terza stagione per 2984, produzione del Teatro della Tosse che, dopo il successo casalingo, ha iniziato la sua tournée in giro per l’Italia. La regia è di Emanuele Conte, direttore artistico del teatro, intervistato dalla redazione ligure di Zai.net.
Lo spettacolo è una ripresa del capolavoro di George Orwell 1984, ma perchè 2984?
«2984 in realtà è una riscrittura. Abbiamo mantenuto l’ossatura principale del racconto ma, come sempre, procedendo a trasposizione da un romanzo ad una rappresentazione teatrale si deve avere la libertà di inventare, di modificare, anche spostando il racconto avanti nel tempo. È questa la forza della fantascienza, così come la intendeva Orwell: inventare un domani per raccontare l’oggi. Il nostro è davvero un momento storico in cui l’informazione viene manipolata e la tecnologia invade la nostra vita in ogni modo. È un momento in cui ci sentiamo spiati».
Questo spettacolo è tornato in scena per la terza stagione, cosa è cambiato rispetto alle precedenti?
«È uno spettacolo nato in collaborazione con il Festival della Scienza. Nella prima versione avevamo addirittura smontato interamente una sala del nostro teatro che, pitturata di nero, era diventata l’involucro in cui ricostruire il mondo di 1984 secondo la nostra idea. Pubblico e cast non si distinguevano perché gli spettatori avevano l’opportunità di vestirsi come gli attori, indossando delle tute da lavoro. Questo tipo di messa in scena aveva il limite di non poter essere portato in giro negli altri teatri italiani. Dato che lo spettacolo ha avuto molto successo, già l’anno scorso abbiamo pensato ad una nuova versione per il palcoscenico. Per non rinunciare al contatto con il pubblico, una parte degli spettatori viene invitata dietro le quinte ad inizio spettacolo, per improvvisarsi comparsa. In realtà, tutti gli spettacoli teatrali cambiano ogni volta che li si porta in scena, specialmente quando il pubblico fa parte dello spettacolo. A me piace variare, vorrei cambiare ogni volta qualcosa. Un riallestimento pedissequo è noioso anche per noi che lo dobbiamo preparare. Altre volte le modifiche sono necessarie perché cambiano gli attori. Nella prima rappresentazione di 2984, ad esempio, il protagonista, Winston, era interpretato da Andrea Di Casa, nella seconda versione da Aldo Ottobrino. È l’attore a dare la sua interpretazione e personalità al personaggio ed è anche per questo che lo spettacolo cambia».
Quanto può interessare ai ragazzi questo spettacolo e, più in generale, quanto li vedi interessati al teatro?
«Il pubblico più entusiasta della messa in scena è stato proprio quello dei giovani, che hanno scoperto, soprattutto quando siamo andati fuori Genova, un teatro diverso, che può essere appassionante come il cinema. L’anno scorso abbiamo consegnato una serie di questionari al pubblico e abbiamo scoperto che su circa 1500 persone intervistate l’80% era sotto i quarant’anni (esclusa l’attività specifica per le scuole!). Un segnale importantissimo: significa che il teatro è qualcosa per i giovani se sa parlare ai giovani. Noi ci sforziamo di dare, sia nelle nostre produzioni che nelle ospitalità, qualcosa in più proprio in questo senso; anche quando vengono compagnie da fuori che mettono in scena un classico devono farlo in maniera originale e forte, lo spettacolo deve possedere quella freschezza di cui il teatro ha bisogno per rimanere vivo e non diventare un mausoleo. Non siamo i soli: in Italia ci sono fortunatamente altri teatri che hanno un’attività molto variegata e riescono ad attirare tutti i tipi di pubblico».
Lo spettacolo è una ripresa del capolavoro di George Orwell 1984, ma perchè 2984?
«2984 in realtà è una riscrittura. Abbiamo mantenuto l’ossatura principale del racconto ma, come sempre, procedendo a trasposizione da un romanzo ad una rappresentazione teatrale si deve avere la libertà di inventare, di modificare, anche spostando il racconto avanti nel tempo. È questa la forza della fantascienza, così come la intendeva Orwell: inventare un domani per raccontare l’oggi. Il nostro è davvero un momento storico in cui l’informazione viene manipolata e la tecnologia invade la nostra vita in ogni modo. È un momento in cui ci sentiamo spiati».
Questo spettacolo è tornato in scena per la terza stagione, cosa è cambiato rispetto alle precedenti?
«È uno spettacolo nato in collaborazione con il Festival della Scienza. Nella prima versione avevamo addirittura smontato interamente una sala del nostro teatro che, pitturata di nero, era diventata l’involucro in cui ricostruire il mondo di 1984 secondo la nostra idea. Pubblico e cast non si distinguevano perché gli spettatori avevano l’opportunità di vestirsi come gli attori, indossando delle tute da lavoro. Questo tipo di messa in scena aveva il limite di non poter essere portato in giro negli altri teatri italiani. Dato che lo spettacolo ha avuto molto successo, già l’anno scorso abbiamo pensato ad una nuova versione per il palcoscenico. Per non rinunciare al contatto con il pubblico, una parte degli spettatori viene invitata dietro le quinte ad inizio spettacolo, per improvvisarsi comparsa. In realtà, tutti gli spettacoli teatrali cambiano ogni volta che li si porta in scena, specialmente quando il pubblico fa parte dello spettacolo. A me piace variare, vorrei cambiare ogni volta qualcosa. Un riallestimento pedissequo è noioso anche per noi che lo dobbiamo preparare. Altre volte le modifiche sono necessarie perché cambiano gli attori. Nella prima rappresentazione di 2984, ad esempio, il protagonista, Winston, era interpretato da Andrea Di Casa, nella seconda versione da Aldo Ottobrino. È l’attore a dare la sua interpretazione e personalità al personaggio ed è anche per questo che lo spettacolo cambia».
Quanto può interessare ai ragazzi questo spettacolo e, più in generale, quanto li vedi interessati al teatro?
«Il pubblico più entusiasta della messa in scena è stato proprio quello dei giovani, che hanno scoperto, soprattutto quando siamo andati fuori Genova, un teatro diverso, che può essere appassionante come il cinema. L’anno scorso abbiamo consegnato una serie di questionari al pubblico e abbiamo scoperto che su circa 1500 persone intervistate l’80% era sotto i quarant’anni (esclusa l’attività specifica per le scuole!). Un segnale importantissimo: significa che il teatro è qualcosa per i giovani se sa parlare ai giovani. Noi ci sforziamo di dare, sia nelle nostre produzioni che nelle ospitalità, qualcosa in più proprio in questo senso; anche quando vengono compagnie da fuori che mettono in scena un classico devono farlo in maniera originale e forte, lo spettacolo deve possedere quella freschezza di cui il teatro ha bisogno per rimanere vivo e non diventare un mausoleo. Non siamo i soli: in Italia ci sono fortunatamente altri teatri che hanno un’attività molto variegata e riescono ad attirare tutti i tipi di pubblico».
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