Il fascino irresistibile del discorso
Siamo sudditi inconsapevoli
Dopo un fortunatissimo tour in giro per l’Italia, Ascanio Celestini porta al Teatro della Corte di Genova il suo monologo “Discorsi alla nazione”, in scena dal 29 ottobre al 1 novembre. Per sorridere, ma soprattutto per riflettere
Dalila Cavallo | 24 ottobre 2013
Nato come work in progress, come testo aperto alle suggestioni fornite dall’attualità, il monologo di Ascanio Celestini Discorsi alla nazione porta in scena la figura del tiranno che prova ad affascinare il popolo per ottenerne l’approvazione, sullo sfondo di una grottesca guerra civile. Divertente e al tempo stesso inquietante, lo spettacolo non può non farci pensare alla nostra nazione. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Lei ha dichiarato che i protagonisti del suo spettacolo “parlano come parlerebbero i nostri tiranni democratici”. Perché secondo lei viviamo in una democrazia ossimorica?
Io ho voluto proporre uno spettacolo, un pezzo d’invenzione, in cui ci fossero personaggi esasperati e grotteschi, senza necessariamente far riferimento ad una realtà precisa. Tuttavia non si può negare che la democrazia rappresentativa, grandissimo cambiamento del Novecento, si discosti ormai parecchio dall’ideale originario. Anzi direi che è giunta al capolinea, dal momento che non c’è più identità tra il pensiero del cittadino e quello del politico, c’è uno scollamento ormai evidente fra le aspettative di chi vota e l’operato di chi è stato votato: la delega non ha più nulla di democratico.
Il protagonista del suo monologo ottiene consensi parlando al suo popolo di cittadini/sudditi: qual è l’elemento affabulatore di un discorso politico?
Bisogna partire dal presupposto che chiunque faccia politica vuole guadagnarsi il maggior numero di voti possibili e per fare ciò preferisce pronunciare discorsi concisi e alla portata di tutti. Questo porta sia ad una variazione - più o meno considerevole - del vero messaggio, sia ad una propaganda in cui i cittadini vengono allettati con false promesse e curiosi slogan, proprio come succede nella pubblicità, dove gli spot non mirano a fare conoscere i prodotti, ma unicamente a venderli.
Molti ritengono che noi giovani siamo lontani dalla politica...
Ritengo che a molti dei ragazzi la politica “tradizionale” non interessi proprio e che solo il 10% di quelli iscritti ai partiti sia realmente convinto delle proprie ideologie. Chi oggi vuole davvero “far politica” non deve partire più da una visione generale - appunto dalle ideologie - per arrivare ad una particolare, ma deve concentrarsi dapprima sui problemi più vicini a lui, quelli reali. Solo così potrà vedere complessivamente l’Italia sotto un’ottica corretta. Quindi i veri politici non sono nei partiti, ma nei movimenti, in particolar modo in quelli territoriali, spinti da bisogni concreti. E sono proprio quelli verso cui i giovani mostrano un vero interesse.
Cosa vorrebbe dirci con questo spettacolo?
Di imparare a riconoscere questa differenza, di non essere cittadini sudditi. Lo spettacolo termina con un grottesco: “Dichiaro finita la guerra civile, ricomincia la tirannia”. Ho utilizzato il linguaggio che siamo abituati a sentire e l’ho esasperato per svelarne il suo meccanismo. Ad esempio, il tiranno a un certo punto dice: “Cittadini! Lasciate che vi chiami ‘cittadini’; anche se tutti sappiamo che siete sudditi, vi chiamerò ‘cittadini’ per risparmiarvi un’inutile umiliazione”. Ecco, spero che sulla base di queste volute esagerazioni gli spettatori escano dallo spettacolo più attenti.
Sulla base dell’esperienza dello scorso anno pensa di essere riuscito nel suo intento?
Vi racconto un episodio abbastanza eloquente: alla fine dello spettacolo l’aspirante tiranno dice cosa farebbe Gramsci se fosse Presidente del Consiglio, sciorinando una serie di banalità che Gramsci non avrebbe mai detto, tipo mettere un pacifista alla Difesa, un contadino all’Agricoltura. Alcuni spettatori lo hanno preso sul serio: se hanno creduto alle parole di un attore, posso solo immaginare cosa succeda quando ascoltano quelle di un politico.
Cosa significa, secondo lei, essere cittadini?
Intraprendere una relazione pubblica, in maniera orizzontale, senza essere clienti, anche se lo siamo di una cosa nobile come andare a teatro. Oggi fatichiamo a considerarci concittadini di chi abita dall’altra parte della città, questo perché la dimensione pubblica si sta perdendo. Abitare un territorio, invece, significa sentirne l’appartenenza.
E noi siamo abbastanza cittadini italiani?
No: i confini politici uniscono un palermitano, un romano e un milanese, ma le barriere sociali fanno sì che essi non si sentano ancora cittadini appartenenti alla medesima nazione.
Lei ha dichiarato che i protagonisti del suo spettacolo “parlano come parlerebbero i nostri tiranni democratici”. Perché secondo lei viviamo in una democrazia ossimorica?
Io ho voluto proporre uno spettacolo, un pezzo d’invenzione, in cui ci fossero personaggi esasperati e grotteschi, senza necessariamente far riferimento ad una realtà precisa. Tuttavia non si può negare che la democrazia rappresentativa, grandissimo cambiamento del Novecento, si discosti ormai parecchio dall’ideale originario. Anzi direi che è giunta al capolinea, dal momento che non c’è più identità tra il pensiero del cittadino e quello del politico, c’è uno scollamento ormai evidente fra le aspettative di chi vota e l’operato di chi è stato votato: la delega non ha più nulla di democratico.
Il protagonista del suo monologo ottiene consensi parlando al suo popolo di cittadini/sudditi: qual è l’elemento affabulatore di un discorso politico?
Bisogna partire dal presupposto che chiunque faccia politica vuole guadagnarsi il maggior numero di voti possibili e per fare ciò preferisce pronunciare discorsi concisi e alla portata di tutti. Questo porta sia ad una variazione - più o meno considerevole - del vero messaggio, sia ad una propaganda in cui i cittadini vengono allettati con false promesse e curiosi slogan, proprio come succede nella pubblicità, dove gli spot non mirano a fare conoscere i prodotti, ma unicamente a venderli.
Molti ritengono che noi giovani siamo lontani dalla politica...
Ritengo che a molti dei ragazzi la politica “tradizionale” non interessi proprio e che solo il 10% di quelli iscritti ai partiti sia realmente convinto delle proprie ideologie. Chi oggi vuole davvero “far politica” non deve partire più da una visione generale - appunto dalle ideologie - per arrivare ad una particolare, ma deve concentrarsi dapprima sui problemi più vicini a lui, quelli reali. Solo così potrà vedere complessivamente l’Italia sotto un’ottica corretta. Quindi i veri politici non sono nei partiti, ma nei movimenti, in particolar modo in quelli territoriali, spinti da bisogni concreti. E sono proprio quelli verso cui i giovani mostrano un vero interesse.
Cosa vorrebbe dirci con questo spettacolo?
Di imparare a riconoscere questa differenza, di non essere cittadini sudditi. Lo spettacolo termina con un grottesco: “Dichiaro finita la guerra civile, ricomincia la tirannia”. Ho utilizzato il linguaggio che siamo abituati a sentire e l’ho esasperato per svelarne il suo meccanismo. Ad esempio, il tiranno a un certo punto dice: “Cittadini! Lasciate che vi chiami ‘cittadini’; anche se tutti sappiamo che siete sudditi, vi chiamerò ‘cittadini’ per risparmiarvi un’inutile umiliazione”. Ecco, spero che sulla base di queste volute esagerazioni gli spettatori escano dallo spettacolo più attenti.
Sulla base dell’esperienza dello scorso anno pensa di essere riuscito nel suo intento?
Vi racconto un episodio abbastanza eloquente: alla fine dello spettacolo l’aspirante tiranno dice cosa farebbe Gramsci se fosse Presidente del Consiglio, sciorinando una serie di banalità che Gramsci non avrebbe mai detto, tipo mettere un pacifista alla Difesa, un contadino all’Agricoltura. Alcuni spettatori lo hanno preso sul serio: se hanno creduto alle parole di un attore, posso solo immaginare cosa succeda quando ascoltano quelle di un politico.
Cosa significa, secondo lei, essere cittadini?
Intraprendere una relazione pubblica, in maniera orizzontale, senza essere clienti, anche se lo siamo di una cosa nobile come andare a teatro. Oggi fatichiamo a considerarci concittadini di chi abita dall’altra parte della città, questo perché la dimensione pubblica si sta perdendo. Abitare un territorio, invece, significa sentirne l’appartenenza.
E noi siamo abbastanza cittadini italiani?
No: i confini politici uniscono un palermitano, un romano e un milanese, ma le barriere sociali fanno sì che essi non si sentano ancora cittadini appartenenti alla medesima nazione.
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