Il "terzo tempo" del cinema
Fuori dalla mischia
Il 21 novembre esce l’opera prima di Enrico Maria Artale, che porta il rugby sul grande schermo con un film intenso dove si parla di adolescenza e riscatto, ma senza cliché
Viola Delpensiero, L.A. | 13 novembre 2013
Opera prima del giovane regista Enrico Maria Artale (già vincitore del Nastro d’argento nel 2012 per il cortometraggio Il respiro dell’arco), Il terzo tempo parla di nuove possibilità, di rinascita, di voglia di ricominciare. Il rugby, definito sport “di combattimento e di situazione”, diventa come lo specchio della vita e «Il terzo tempo - racconta il regista - è proprio quello che celebra la vittoria e la sconfitta, dentro e fuori dal campo. È un tempo simbolico, in cui a fine partita i giocatori delle due squadre si radunano e condividono un momento goliardico, per mettere fine alle ostilità della partita. Più forte ci si batte nella vita attraverso lo scontro, più è importante conoscere il valore dell’avversario, senza il quale non avremmo identità». Protagonista della pellicola è Samuel (Lorenzo Richelmy, noto tra l’altro per aver partecipato in tv a I liceali), un ragazzo cresciuto in condizioni difficili e violente, che non ha mai conosciuto il padre e ha avuto un rapporto fugace con la madre tossica. Già in carcere per piccoli reati, viene inserito in un programma di riabilitazione presso un’azienda agricola, alle cui regole si adatta difficilmente. Il suo supervisore, l'assistente sociale Vincenzo (Stefano Cassetti), ex campione di rugby, lo convince a provare questo sport. I primi allenamenti sono un fallimento, ma giorno dopo giorno, Samuel inizia a capire che dal rugby può avere una possibilità di rinascita, grazie anche all'affiatamento tra i compagni e all’amore di Flavia, la figlia dell’allenatore. «Il punto forte del film è il protagonista - prosegue Artale - non solo perché Lorenzo è bravissimo, ma perché abbiamo raccontato un personaggio in cui molti ragazzi potessero riconoscersi. Non è il solito adolescente difficile che si redime, è un ragazzo con un carattere duro e scontroso che mantiene la sua identità per tutto il film, ma che instaura relazioni che possono aprirgli nuove prospettive. Gli adolescenti sono spesso raccontati o in maniera eccessivamente drammatica oppure attraverso dei cliché: non è questo il caso». Il regista ha scelto di raccontare questa disciplina così complessa attraverso gli occhi di Samuel, in modo che la comprensione del rugby potesse andare di pari passo con lo sviluppo della storia. Così ha girato quattro diversi incontri: il primo è visto da lontano, come se l’occhio fosse estraneo a ciò che si svolgeva in campo; il secondo è vissuto invece dall'interno, ma è caotico, il protagonista subisce la parte violenta del gioco ed emerge la sua scarsa conoscenza delle regole fondamentali. Alla terza partita, si ha una progressiva presa di coscienza dei meccanismi, delle tecniche, e il rugby diventa sempre più comprensibile; nella quarta partita, con il rallenty, ogni scena è dilatata, in modo da rendere chiari gli schemi ma anche il significato sportivo ed etico del rugby. «Questo sport - conclude il regista - somiglia molto alla società civile: ci sono tante leggi complicate e il giocatore non le conosce tutte; tu entri in campo con i principi fondamentali e ti affidi al giudizio di un arbitro. La consapevolezza dell’importanza delle regole insegna molto ai ragazzi, qualcosa di cui avrebbe bisogno tutto il nostro Paese».
LA META DI LORENZO RICHELMY
Il tuo personaggio entra in una squadra di rugby: è stato difficile prepararti?
Mi sono allenato per due mesi e mezzo prima delle riprese, è stata dura, io non conoscevo questo sport.
E per quanto riguarda la preparazione mentale?
Il mio personaggio non ha avuto nessun tipo di protezione affettiva ed esce dal carcere minorile dopo un anno, sapendo che sarà per l’ultima volta perché, se recidivo, dovrà affrontare il carcere vero. L’esperienza della galera era difficile da capire, ma io sono cresciuto nella periferia di Roma Nord, a Labaro, dove ci sono le case “bomba”, quelle in cui negli anni ‘80 stava anche chi era condannato agli arresti domiciliari. Io avevo degli amici con storie incredibili e non ho fatto altro che ripescare dalla memoria situazioni borderline di reati minori, famiglie assenti e parenti in carcere.
Torniamo al rugby: cosa si impara?
Il rugby non è contaminato dalla pressione mediatica, né dall’enorme presenza di soldi, è cresciuto solo negli ultimi tre anni. È uno sport che non ha individualismo, c’è un organico che si muove insieme e questo fa sì che in qualche maniera tu sia il tuo compagno: c’è un grandissimo rispetto dell’altro. Se subisci un fallo, ti rialzi subito e ti rifai con il gioco.
Tre concetti chiave per descrivere il film?
Grande speranza nel futuro, fiducia nel prossimo, voglia di lottare.
Come sei arrivato a questo film?
Il film è nato come saggio di diploma del Centro Sperimentale, quando si sono accorti che c’era una grande professionalità dietro e una buona sceneggiatura, hanno chiamato De Laurentiis e si sono coperte tutte le spese. Enrico lo avevo già conosciuto a scuola, siamo entrati insieme al Centro, io per la recitazione, lui per la regia. Il cast tecnico, la squadra di fotografia, i costumi... Quasi tutti i reparti erano composti da ragazzi della scuola.
Quindi è stata una bella esperienza?
Una cosa bellissima, c’era un lavoro di squadra 24 ore su 24, in assoluto l’esperienza più forte in cui mi sono sentito più attore.
Tra poco farai un film con Verdone: come ti senti?
Per me Carlo Verdone è un mito, sono emozionatissimo, euforico e ansioso allo stesso tempo!
LA META DI LORENZO RICHELMY
Il tuo personaggio entra in una squadra di rugby: è stato difficile prepararti?
Mi sono allenato per due mesi e mezzo prima delle riprese, è stata dura, io non conoscevo questo sport.
E per quanto riguarda la preparazione mentale?
Il mio personaggio non ha avuto nessun tipo di protezione affettiva ed esce dal carcere minorile dopo un anno, sapendo che sarà per l’ultima volta perché, se recidivo, dovrà affrontare il carcere vero. L’esperienza della galera era difficile da capire, ma io sono cresciuto nella periferia di Roma Nord, a Labaro, dove ci sono le case “bomba”, quelle in cui negli anni ‘80 stava anche chi era condannato agli arresti domiciliari. Io avevo degli amici con storie incredibili e non ho fatto altro che ripescare dalla memoria situazioni borderline di reati minori, famiglie assenti e parenti in carcere.
Torniamo al rugby: cosa si impara?
Il rugby non è contaminato dalla pressione mediatica, né dall’enorme presenza di soldi, è cresciuto solo negli ultimi tre anni. È uno sport che non ha individualismo, c’è un organico che si muove insieme e questo fa sì che in qualche maniera tu sia il tuo compagno: c’è un grandissimo rispetto dell’altro. Se subisci un fallo, ti rialzi subito e ti rifai con il gioco.
Tre concetti chiave per descrivere il film?
Grande speranza nel futuro, fiducia nel prossimo, voglia di lottare.
Come sei arrivato a questo film?
Il film è nato come saggio di diploma del Centro Sperimentale, quando si sono accorti che c’era una grande professionalità dietro e una buona sceneggiatura, hanno chiamato De Laurentiis e si sono coperte tutte le spese. Enrico lo avevo già conosciuto a scuola, siamo entrati insieme al Centro, io per la recitazione, lui per la regia. Il cast tecnico, la squadra di fotografia, i costumi... Quasi tutti i reparti erano composti da ragazzi della scuola.
Quindi è stata una bella esperienza?
Una cosa bellissima, c’era un lavoro di squadra 24 ore su 24, in assoluto l’esperienza più forte in cui mi sono sentito più attore.
Tra poco farai un film con Verdone: come ti senti?
Per me Carlo Verdone è un mito, sono emozionatissimo, euforico e ansioso allo stesso tempo!
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