Il suo ultimo libro si intitola Questa sera è già domani e racconta le vicende tragiche dell’Italia del 1938. Come è nato? Cosa può dirci in merito?
Il romanzo è ispirato a una storia vera, quella di mio marito, quando era bambino e poi ragazzo, fino ai sedici anni: un ragazzo che si sentiva diverso dagli altri – e forse lo era – con tutte le vicende e le vicissitudini del caso. Fino a quando però le Leggi razziali non arrivano a sconvolgere la vita della sua famiglia e dei vari protagonisti dell’opera. Il romanzo si ambienta nella Genova del 1938. Al termine del libro ho pubblicato il documento di accettazione di questo nucleo familiare in Svizzera, passando così per un attimo dal romanzo alla realtà, a una descrizione ancora più veritiera e accurata di fatti drammatici che hanno segnato nel profondo la storia del nostro Paese. Questa storia è nata dai racconti di mio marito, dalla sua fertile aneddotica, dal nostro stare insieme e discutere, finché non ho avvertito la necessità di dare a questa serie di episodi la forma di un romanzo compiuto. La storia e la Storia, quella piccola e quella grande, quella degli uomini comuni e delle nazioni, è sempre destinata ad intrecciarsi.
Quali erano le sensazioni dominanti all’epoca?
La gente, soprattutto gli ebrei, si sentiva in grande pericolo e faceva di tutto per mettersi in salvo, per scampare all’abisso. Si percepiva la corsa verso il nulla che poi ha condotto ad Auschwitz e agli altri luoghi dell’orrore che oggi si studiano sui libri di scuola.
Ha vinto di recente il Premio Strega Giovani 2018. Cosa ha significato per lei?
L’ho accolto con sorpresa, anche perché io ero la decana del gruppo di candidati: credevo che avrebbero scelto un candidato più giovane, invece hanno scelto proprio me e questo mi ha fatto un immenso piacere. I ragazzi si sono immedesimati nella storia di un giovane che si ribella, che rifiuta il fascismo e i suoi riti, che vuole in ogni modo affermare la propria identità. Questo ha colpito molto l’immaginario degli adolescenti che hanno votato per me. Questa motivazione mi ha inorgoglito, anche perché è stato un processo del tutto spontaneo.
Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario dell’approvazione delle leggi razziali. Cosa ha rappresentato questo provvedimento per il nostro Paese?
Una ferita mai sanata, specie per le comunità ebraiche, anche perché esse si sentivano italiane al cento per cento: si sentivano molto più italiani che ebrei, avevano un’identità ben definita ed erano assolutamente inseriti nel tessuto della nostra società, compresi i suoi vertici e gli aspetti attraverso cui uno Stato si manifesta. Stupore, sgomento e incredulità: questi furono i sentimenti prevalenti, accompagnati dalla speranza che queste leggi non venissero osservate, che passassero per così dire in cavalleria. Fino a quando non si sono trovati nel gorgo di una tragedia storica senza eguali.
Io avevo fatto appena la prima elementare, pertanto non ho vissuto un grande trauma, ma per altri bambini e ragazzi l’espulsione da scuola ha rappresentato un dramma indescrivibile.
Quali conseguenze hanno avuto su di lei le leggi razziali?
Ribadisco: mi ha salvato, almeno in parte, il fatto di essere molto piccola; pertanto, non mi resi conto fino in fondo di cosa stesse accadendo e di quale fosse la portata storica ed epocale di un provvedimento destinato ad allineare l’Italia alla Germania di Hitler. Io all’epoca abitavo a Torino, venne aperta una scuola ebraica e ce la feci; tuttavia, mio padre perse il posto di lavoro e noi fummo comunque ghettizzati.
Nel ’43 il pericolo era ormai palpabile e allora i miei genitori nascosero me e le mie due sorelle in un convento di suore, con tanto di nome falso. Lì dovemmo far finta di essere cattoliche e imparammo anche le preghiere. Non ci siamo salvate dalle persecuzioni, purtroppo, ma dalla deportazione fortunatamente sì.
Secondo lei potrebbe ripetersi un nuovo abisso della storia, fino a giungere all’apocalisse di Auschwitz e degli altri campi di sterminio?
Purtroppo sì, perché la storia tende a ripetersi e la democrazia è sempre un elemento fragile e non costitutivo, ahinoi, della nostra società. E poi, soprattutto nei periodi di crisi, entra in gioco la teoria del nemico, il bisogno del capro espiatorio su cui scaricare tutte le colpe per non assumersi le proprie responsabilità. L’ebreo di oggi è lo straniero, il che, in una fase come quella che stiamo attraversando, senza grandi ideologie né forze politiche attrezzate a comprendere la complessità del nostro tempo, può sfociare, e in parte sta già sfociando, nel razzismo e nella discriminazione selvaggia. Il meccanismo è lo stesso, sarebbe inutile e ipocrita negarlo. Senza contare poi le conseguenze delle parole d’odio e delle azioni di chi soffia sul fuoco del malcontento popolare.
Primo Levi asseriva che chi non ricorda il passato è destinato a ripeterlo. La memoria era una delle sue ossessioni, delle ragioni della sua scrittura e della sua battaglia civile. Qual è per lei il valore della memoria?
Nel comporre una delle sue poesie più belle e significative, quella posta all’inizio di Se questo è un uomo, Primo Levi riprende lo Shemà ebraico. La memoria non è ricordo ma elaborazione del medesimo, portando nel presente tutto ciò che è successo nel passato come elemento basilare. Il Giorno della memoria è servito anche a questo, al netto della retorica e delle strumentalizzazioni, persino per fini commerciali. Tuttavia, guai a mettere tutto nello stesso calderone: la memoria è un lavorio, un’elaborazione interiore imprescindibile, in quanto coinvolge la tua anima, il tuo pensiero, i tuoi stati d’animo, e per questo deve essere eterna.