“Essere balsamo per le ferite altrui”. È questa la speranza che Suor Roberta Pignone coltiva per la nazione che ormai l’accoglie da oltre dieci anni: il Bangladesh. Suor Roberta nasce a Monza, nel 1971, stesso anno dell’indipendenza del Bangladesh. Si laurea in medicina con l’idea di diventare un medico di base. A 30 decide di partecipare ad un’esperienza missionaria che cambierà per sempre la sua vita e che la condurrà per la prima volta in Bangladesh. Abbandonato tutto diventa una suora-missionaria entrando a far parte del PIME (Pontificio Istituto Missione Estere). Scelta che, insieme alla sua vocazione di medico, diverrà la sua ragion di vita. Non appena un anno e mezzo dopo la partenza per il paese dell'Asia Meridionale, a Suor Roberta viene data la responsabilità di guidare una clinica: il Damien Hospital a Khulna. È questo il luogo nel quale, ogni giorno, entra a contatto con i malati di lebbra, AIDS e tubercolosi e dove, ogni giorno, riesce a trasmettere un po’ di quell’amore incondizionato che lei, prima di tutto, prova per Gesù.
C’è stata una persona/un’esperienza/un evento che l’ha aiutata a capire che la sua strada era quella di andare in missione come suora-medico?
Ci sono stati tanti incontri, tante persone che durante la mia giovinezza mi hanno parlato di una vita donata per Gesù e che, quindi, mi hanno portato a pensare alla possibilità che la mia vita potesse essere quella di una missionaria. Ma è stata la partenza con Cammino Giovani e Missione nel 2001 che ha segnato una svolta nella mia vita poiché da una parte mi ha portato per la prima volta in Bangladesh, dall’altra mi ha fatto conoscere le Missionarie dell’Immacolata, di cui ora faccio parte. Il loro lavoro si avvicinava molto a quello che volevo fare io, ovvero l’essere missionaria e nello stesso tempo essere medico dei poveri.
Quali sono le difficoltà riscontrate nel praticare la sua professione di medico in un paese in via di sviluppo?
Io definisco il mio lavoro una medicina dei poveri. Di conseguenza la prima difficoltà che riscontro nella mia professione, come anche nella vita di tutti i giorni è il fatto di dover accogliere e accettare che il Bangladesh sia un paese povero in tutto, sia materialmente sia moralmente. In particolare, nei primi approcci con la professione medica ho dovuto mettere da parte molte sicurezze che avevo qui in Italia; un esempio sono i farmaci: sono costretta a utilizzare principi attivi ormai datati nel mondo occidentale che tanti non utilizzano più e che costano poco, ma che qui mi danno la certezza di poter aiutare e curare i pazienti. Un’altra difficoltà è che la maggior parte delle volte sono costretta a lavorare da sola, basandomi solo sulle mie conoscenze. Spesso, infatti, ci sono medici locali che non sono assolutamente interessati al dolore e alle difficoltà dei pazienti e che di conseguenza si fanno pagare quando prescrivono i farmaci, i quali dovrebbero essere gratuiti.
Qual è il valore aggiunto del suo essere suora nella professione medica?
A me piace pensare ad una vocazione nella vocazione. Il fatto di essere suora aggiunge un qualcosa ad una professione che è già bella di suo. La vita del medico è una vita al servizio degli altri. C’è poco tempo per sé. Nel mio spendere la vita per i malati c’è il fatto che, prima di tutto, io ho donato la mia a Gesù. È Lui che mi insegna, ogni giorno, a donare la vita in modo diverso. Il valore aggiunto è che in qualche modo la gente nella mia cura possa vedere l’amore di Dio. Amore di cui, in un paese musulmano, non si può parlare apertamente. Quindi l’unico mezzo per incarnarlo e trasmetterlo è attraverso il mio lavoro quotidiano.
Qual è il senso della sua presenza in Bangladesh, paese prevalentemente musulmano?
Ciò che mi piace trasmettere è il desiderio di essere balsamo per le ferite altrui. Quello che noi missionarie possiamo fare è che un musulmano possa diventare un buon musulmano. Il nostro obiettivo parte, infatti, dai cosiddetti “ultimi del mondo”, i malati di lebbra e tubercolosi. A queste persone noi possiamo parlare di speranza, attraverso dei semplici gesti quotidiani: il farli venire qui in clinica, il poterli curare e farli sentire importanti dimostrandogli che c’è qualcuno che si prende cura di loro, che si interessa, che non ha paura di toccarli. Un altro compito importantissimo che abbiamo noi missionarie è metterci accanto a tutte le donne bengalesi, donne che in questo paese non contano nulla, al fine di mostrare loro il nostro affetto, prenderci cura e far sentire loro l’importanza della loro vita.
Qual è la speranza che lei coltiva per questo popolo?
In base alla mia esperienza, inizio con il dare una “qualifica” a questa gente: essi sono degli eterni adolescenti (nel senso buono del termine). Un popolo che non vuole crescere, un popolo che non ha l’idea di pensare al futuro, di programmarlo, di prendersi le proprie responsabilità. La speranza è dunque quella che ad un certo punto l’adolescente diventi grande e che quindi arrivi a superare quell’atteggiamento ancora poco maturo, per affrontare la vita in modo diverso. Spesso, i bengalesi hanno l’idea che noi andiamo da loro ad insegnare la vita ma non è assolutamente così. Quello che ci piacerebbe fare è dare qualche esempio che però, a volte, non è ben visto. È difficile e mi accorgo che dopo dieci anni la situazione non è cambiata. Sono consapevole del fatto, però, che ci voglia tanta pazienza. È un cammino di crescita che ha bisogno del suo tempo. Sicuramente non vedremo quello che abbiamo seminato.
Sulla base della sua esperienza, che consigli darebbe agli adolescenti che faticano a trovare la loro strada?
Parto con il dire che le decisioni che si prendono durante l’adolescenza non sono quelle che definiscono poi quello che saremo da grandi. Se penso alle scelte che ho fatto durante l’adolescenza, mi accorgo ora che erano tutte sbagliate rispetto alla vita che sto facendo adesso. Erano assolutamente inadeguate: un esempio? Ho scelto di fare il liceo linguistico, perché volevo assolutamente studiare lingue all’università, e poi mi sono trovata, al quarto anno, a scegliere medicina. Quello che mi verrebbe da dire è di non avere paura e di seguire i propri sogni, senza il timore di sbagliare e dire: “adesso devo cambiare strada”. Un consiglio che vorrei dare ai giovani è di cercare qualcuno di più grande che li aiuti nelle loro scelte e, quindi, non avere la presunzione di poter diventare adulti da soli, e dunque avere il coraggio di confrontarsi con persone che hanno già camminato. Alla fine la strada si fa cadendo molte volte ma rialzandosi sempre.
Foto: Khulna | Asm Sultan on Wikimedia Commons