Il conflitto fra Israele e Palestina si è riacceso negli ultimi giorni, riaprendo una vecchia ferita mai richiusa. L’escalation degli scontri nasce da diversi problemi storici irrisolti, che bisogna affrontare se si vuole raggiungere una pace duratura. Ne abbiamo parlato durante la trasmissione Zai.Time con Ugo Tramballi, giornalista e editorialista del Sole 24 Ore, già inviato in Medio Oriente, India e Africa e corrispondente di guerra da diversi paesi del mondo.
Capire la natura di questo conflitto, che va avanti a intensità diverse da oltre settant’anni, è molto complesso. Come si è arrivati all’escalation di questi giorni?
L’escalation nasce da diversi episodi, avvenuti in occasione di festività che in genere provocano particolare tensione. Durante il Ramadan gli israeliani hanno impedito ai giovani palestinesi di andare a fare la preghiera quotidiana nella Città Vecchia di Gerusalemme, nei pressi della Spianata del Tempio, dove c’è la Moschea di Al-Aqsa. Nel frattempo, hanno anche deciso di espellere alcune famiglie palestinesi dalle proprie case a Gerusalemme est, per mettere al loro posto famiglie di israeliani ebrei. Gerusalemme è una città unica, ma in realtà è divisa in due: Gerusalemme Ovest è abitata da israeliani ebrei, mentre Gerusalemme est è una città araba, abitata da palestinesi cristiani e musulmani. Le azioni di queste settimane sono parte di un lungo processo di ebraicizzazione e israelianizzazione della città. Gerusalemme è una città molto complicata, centro fondamentale delle religioni ebraica, musulmana e cristiana (con il Santo Sepolcro, luogo che per i cristiani è ancora più importante della Chiesa della Natività di Betlemme). Quello che è successo in questi giorni è stato la goccia che ha fatto traboccare un vaso già molto pieno. Sono infatti le ultime di una serie di tensioni che continua da più di un secolo. Il fenomeno è cominciato alla fine dell’Ottocento, e ha attraversato tutto il Novecento in varie forme: prima, l’impero Ottomano; poi, dopo la Grande Guerra, il mandato britannico; infine, dopo la Seconda Guerra Mondiale è nato lo Stato di Israele. Dei palestinesi oggi non parlava più nessuno, perché negli ultimi dieci anni ci sono stati altri conflitti nel Medio Oriente che hanno preoccupato il mondo. Ma i palestinesi sono sempre lì, e oggi ci hanno ricordato che esistono ancora, e che il loro problema, il diritto a una patria, non è ancora stato risolto. Stiamo parlando di Gerusalemme, che è in Cisgiordania. A Gaza c’è un'altra realtà: governano gli estremisti e fondamentalisti islamici di Hamas, convinti nella loro mentalità di poter raggiungere l’indipendenza e uno stato palestinese islamico (sebbene fra i palestinesi vi siano anche molti cristiani) attraverso una lotta armata, lanciando razzi contro Israele, che possiede le forze armate più potenti del Medio Oriente e tecnologicamente fra le più forti al mondo. È una guerra inutile, che provoca come sempre tantissimi morti, soprattutto fra palestinesi. I palestinesi di Gaza sono al tempo stesso vittime degli israeliani, che chiudono Gaza come una gabbia e la bombardano indiscriminatamente, e vittime di Hamas che lancia razzi provocatori che uccidono anche civili. C’è una sperequazione fra le vittime, ma i morti sono sempre morti. Alla fine si arriva alla situazione di questi giorni. Ci sono stati già casi simili in quattro o cinque occasioni.
Si parla giustamente del dramma dei palestinesi, e in particolare degli abitanti di Gaza. Ma bisogna sempre ricordare che, quando si parla di un conflitto, la popolazione civile c’è da entrambe le parti. Come gli israeliani vivono questa situazione a livello quotidiano, di fronte alla pesantezza psicologica che un conflitto genera nella popolazione civile?
Come dicevo, è un conflitto lunghissimo. Siamo nel XXI secolo, e ancora non si vede una via di uscita. Ed è un conflitto estremamente complesso, che riguarda ben tre diversi elementi che devono essere risolti. Innanzitutto, c’è un elemento nazionalista: ci sono due nazionalismi, quello ebraico e quello palestinese, che rivendicano uno stato. Israele ce l’ha, i palestinesi non ancora. Poi, c’è un elemento etnico: il rapporto fra ebrei e arabi. Infine, c’è un elemento religioso, che un tempo era il meno importante, ma che è cresciuto negli ultimi vent’anni. Quest’ultimo è il più pericoloso. Quando l’elemento religioso entra in un conflitto, infatti, questo diventa sempre più brutale e difficile da risolvere.
Lo scontro è così annoso e radicato che, salvo pochissimi episodi volenterosi e meritevoli, i due popoli oggi si detestano. È subentrato l’elemento della faida. Se gli israeliani arrestano o picchiano i palestinesi di Gerusalemme, allora a Gaza lanciano i razzi. Se gli israeliani uccidono una famiglia con 10 bambini a Gaza, allora si prendono di mira i centri abitati… e così la faida non finisce più. È estremamente difficile trovare israeliani e palestinesi che siano in grado di accettare e capire le ragioni e la narrativa gli uni degli altri.
Io ho seguito tanti conflitti, ma questo è il più complesso. Ed è complesso anche per noi giornalisti. Seguo questa realtà da quando ero giovane, perché da ragazzo andai a lavorare volontario in un kibbutz non lontano da Gaza, che oggi è sotto i razzi di Hamas. Andai perché, come cristiano ed europeo nato dieci anni dopo la fine dell’Olocausto, sentivo il dovere di espiare le colpe di noi, cristiani ed europei, responsabili di 2000 anni di persecuzioni che sono sfociate nella mostruosità della Shoah. Conosco bene quella realtà, e ho seguito la vicenda da giornalista per moltissimo tempo. E queste dinamiche si ripercuotevano anche sul mio lavoro. Sia gli uni che gli altri si aspettano solo adesione totale, militanza, e non accettano altre ragioni.
In questo conflitto, come dico sempre ai giovani per spiegarlo, c’è un occupante (Israele) e un occupato (i palestinesi), e da questo non si può prescindere. Ma se i palestinesi sono occupati da 70 anni e non c’è una via di uscita, qualche responsabilità la hanno anche loro. Ragionamenti di questo genere di solito non sono accettati né dagli uni né dagli altri. O diventi filo-israeliano o diventi filo-palestinese, altrimenti non sei accettato, e sei criticato e accusato. Ricevo mail da estremisti di entrambi i campi, anche italiani, tra chi mi ritiene un maledetto sionista e chi mi ritiene un antisemita.
Quella di questi giorni non è la prima escalation di questo genere. Secondo Lei, come si potrebbe risolvere?
Come successo negli altri quattro o cinque casi precedenti (ci sono stati tanti scontri piccoli, e 4 o 5 grossi come questo), le tensioni si spegneranno. Non è una novità. Ciò che stiamo vedendo di nuovo è che all’interno di Israele i palestinesi cittadini israeliani (circa il 21% della popolazione) si stanno rivoltando. Ma una hudna (tregua), come dicono gli arabi, si è sempre trovata, anche se adesso alcuni hanno interesse che continui il conflitto. Il problema è che si raggiunge sempre e solo una tregua, che garantisce calma in cambio di altra calma. Ma il problema tornerà, a meno che non si torni a fare come negli anni ’90, durante la fase degli accordi di Oslo, quando ci fu una vera trattativa per la nascita di due stati in pace e in sicurezza, uno accanto all’altro. Due stati per due popoli. Il problema non è solo interrompere questo ciclo di violenze e morti, che è meglio che si interrompa subito. La vera soluzione è rimettere le parti al dialogo di allora per permettere la nascita di uno stato palestinese. Finché non nascerà uno stato palestinese accanto a Israele, Israele non sarà mai una società compiuta. Il Sionismo non è altro che il Risorgimento ebraico, e ognuno ha la propria visione della storia, come accaduto anche nel Risorgimento italiano. Gli austriaci ancora oggi continuano a ritenere che Mazzini fosse un terrorista.
Come ricordo sempre ai ragazzi, studiare la Storia difficilmente darà un posto di lavoro. Ma bisogna studiarla comunque, perché è lo strumento migliore per capire il nostro presente, le nostre difficoltà e complessità, e magari anche individuare quale sarà il nostro futuro.
Il problema, poi, è che Israele si è spostato molto a destra. Netanyahu governa ininterrottamente da 12 anni, e non è mai un bene quando una sola persona governa troppo a lungo in democrazia. E Israele è una democrazia, anche se su base un po’ troppo etnica. In questi anni il paese si è spostato molto a destra, e la destra nazionalista israeliana ritiene che uno stato palestinese non debba nascere, e ritiene il problema superato. Ma non è così, e i palestinesi ce l’hanno ricordato in questi giorni. La guerra, i razzi di Hamas, i bombardamenti israeliani fanno dimenticare quello che è successo a Gerusalemme. I palestinesi rivendicano il loro diritto a essere liberi, indipendenti, a non essere arrestati e perseguitati, a non vedere le loro terre in Cisgiordania regolarmente erose dalle colonie ebraiche.
Di fronte a questi scontri, quali sono state le reazioni degli altri paesi? E dell’Italia? Ci sono state manifestazioni a cui hanno partecipato esponenti politici…
È comprensibile che la comunità ebraica romana (che da sempre è più romana dei romani), come le comunità ebraiche di tutto il mondo, sia preoccupata di quello che sta accadendo. In fondo Israele è per loro la realizzazione di un sogno millenario. Ma quello che abbiamo visto la settimana scorsa al portico di Ottavia, con l’arco costituzionale intero, da destra a sinistra, mi ha molto offeso. L’ho trovato disgustoso. Hanno trasformato una tragedia in corso in un comizio elettorale. Come sapete a Roma si voterà presto per le elezioni comunali, e loro in realtà sono andati a fare un comizio, banalizzando la questione con un’espressione come “Io sto con Israele”. Cosa vuol dire? E cosa vuol dire “Io sto con la Palestina”? Io non sto con nessuno dei due. Io voglio capire, voglio aiutare cercando di capire le ragioni degli israeliani e dei palestinesi. Non va bene ragionare come ragionano loro, che fra i due popoli sono divisi e si detestano, e scegliere un fronte o l’altro.
Per quanto riguarda l’Italia, ha una politica estera ridotta. Abbiamo alcuni interessi, ma non siamo in grado di incidere da soli sulla questione israelo-palestinese. Per l’Italia il paese in cui si gioca un fondamentale interesse nazionale è la Libia: per l’energia che noi compriamo, per la sicurezza (perché è un paese ancora in guerra, anche se al momento si è un po’ calmata), per il rischio di terrorismo, perché la Libia è piena di estremisti dell’Isis o di Al-Qaeda, e infine per la questione dei migranti, che è una questione umanitaria della quale non ci possiamo mai dimenticare, ma per noi è anche una questione politica. Sulla questione israelo-palestinese avrebbe un ruolo l’Unione Europea, che è l’unica che continua a chiamare questa vicenda Middle East Peace Process, processo di pace in Medio Oriente, come se questo fosse l’unico processo fondamentale per ottenere la pace nella regione. Ma non è così, e in questi ultimi anni le primavere arabe, le guerre civili, l’Isis, l’implosione della Libia e dello Yemen e hanno fatto dimenticare la questione palestinese. L’Europa ha dunque un ruolo, sebbene Israele consideri i paesi europei, anche per il retaggio passato, responsabili dell’antisemitismo. Gli israeliani sono molto prevenuti nei confronti dell’UE, che pure, rispetto agli Stati Uniti, ha una posizione molto più equilibrata sulla questione. Ma, visto che gli israeliani sono stati viziati dagli americani che hanno sempre sostenuto soltanto Israele e mai i palestinesi, l’Europa è considerata di parte, filopalestinese.
E poi, naturalmente, ci sono le potenze regionali.
In chiusura, una domanda più “politica”: alle elezioni di marzo Netanyahu non è riuscito a formare una maggioranza solida. Ci sono state diverse tornate elettorali, e forse si tornerà presto al voto. L’incarico è stato affidato a Lapid, il capo dell’opposizione, che per formare un governo deve necessariamente ottenere il supporto del partito che difende gli interessi degli arabi di Israele. Che impatto avranno i fatti di questi giorni sulla formazione del governo? Indeboliscono o rafforzano Netanyahu?
C’è una specularità tra israeliani e palestinesi anche riguardo al voto. Gli israeliani votano troppo (se si tornerà a votare sarà la quinta elezione in poco più di due anni), mentre i palestinesi, per ragioni gravi e serie, non votano da 16 anni. A qualcuno serve che questo conflitto vada ancora avanti. Sicuramente le forze armate israeliane vogliono ancora raggiungere degli obiettivi tattici, e distruggere alcune infrastrutture di Hamas per rendere più difficile ricostruire un arsenale missilistico, cosa che però accadrà ancora. Israele non è mai stata capace di sradicare Hamas da Gaza.
Netanyahu sa che ha perso l’opportunità di formare un governo, e adesso tocca ai suoi avversari. Se dimostra di aver vinto questo conflitto, guadagnerà dei voti. E la durezza degli scontri ha fatto venir meno al fronte opposto l’appoggio di uno dei partiti degli arabi israeliani, che peraltro è il partito estremista islamico, il che è paradossale. In queste condizioni infatti non darà mai un appoggio a un governo israeliano. Israele ha un sistema politico proporzionale quasi puro, e quindi è difficile trovare una maggioranza parlamentare (61 su 120 seggi alla Knesset, il parlamento israeliano) per chi vince le elezioni. Allora si voterà di nuovo senza successo.
Se guardiamo a queste elezioni in merito alla situazione israelo-palestinese, dobbiamo ricordare che per eliminare il conflitto non basta raggiungere la calma, ma bisogna rimettersi a dialogare per un processo di pace vero. E allora, se anche si facesse un governo fondato su un fronte anti-Netanyahu, avremmo una specie di Frankenstein politico, in cui ci sarebbero sia la sinistra pacifista, quello che resta del vecchio partito laburista, sia l’estrema destra del partito di Naftali Bennett, che è il più importante sostenitore dei coloni e quindi dell’occupazione. In questo accordo fra Bennett e Lapid, che è un centrista che detesta i palestinesi, ci sarebbe un’alternanza tra i due, e toccherebbe a Bennett diventare primo ministro per i primi 18 mesi. E Bennett sostiene che non debba nascere lo stato palestinese, e i palestinesi debbano essere espulsi dalla Cisgiordania per creare la grande Israele. Chiunque governi, non è una buona notizia per la ripresa del processo di pace.
Foto: Gerusalemme | Andrew Shiva su Wikimedia Commons