Quando la vita ti mette alla prova, lo sport spesso rappresenta una seconda occasione per rinascere. La storia di Filippo Carossino ne è un esempio lampante. Classe ‘93 di origine ligure, Carossino ha dovuto far fronte ad una vita senza entrambe le gambe, a causa di un incidente occorsogli nel 2007. Da lì è iniziata una nuova vita, da promettente pallanuotista a stella del basket in carrozzina, grazie ad una mentalità da vero campione:
Raccontaci un pò di te. Come hai avuto il primo contatto con il basket in carrozzina? Il basket è sempre stato una tua passione?
La pallacanestro non è sempre stata una mia passione. L’ho incontrata con il basket in carrozzina. Non avevo mai giocato a pallacanestro: il mio primo tiro l'ho fatto seduto in carrozzina. Mi sono avvicinato al basket nel 2010/2011 più o meno, dopo che nel 2007 ho avuto un incidente per il quale ho subito l'amputazione di entrambe le gambe. A me lo sport è sempre piaciuto tantissimo. Io vengo da Genova, giocavo a pallanuoto e quindi sono sempre stato abituato a un contesto di sport di squadra. E questo ricercavo anche nel mio futuro sport, perché chiaramente quello che facevo prima non potevo più farlo. Quindi una sera a Genova sono andato a provare il basket. Il primo impatto forse non è stato dei migliori, non essendo mai stato grande appassionato ed avendo sempre considerato il basket saltare, schiacciare e correre. Giocare in carrozzina mi sembrava tremendamente difficile, dovendo imparare a spingere la carrozzina, palleggiare, passare la palla, muoversi per il campo e poi a tirare. In quel momento, però, forse è stato quello che mi serviva, nel senso che volevo tornare a vivere un contesto di squadra, dello spogliatoio. Da lì mi sono lasciato andare a quello che provavo, cioè al fatto che mi piaceva e che stavo bene in quel contesto. In seguito ho fatto quattro campionati (due di serie B e due di A2 con la mia squadra di Genova) e poi ho avuto l'opportunità di venire a giocare a Cantù, dove mi sono trasferito nove anni fa.
Possiamo dire che il tuo trasferimento a Cantù ha rappresentato un momento di svolta personale e nella tua carriera professionale?
Sicuramente quello è stato un passo molto importante. Quando ho cominciato a giocare il mio primo pensiero era quello di divertirmi e trovare ciò che mi piacesse, mi coinvolgesse e mi facesse stare bene come stavo prima, quando facevo il mio vecchio sport. Poi, piano piano, mi è cresciuta nella testa l'idea di provare a diventare un giocatore vero, di trasformare quel puro e semplice divertimento nella mia quotidianità in obiettivi importanti, approdare magari un giorno in Nazionale, anche se solo per un allenamento , cosa che reputo essere la maggiore gratificazione per un atleta nella sua disciplina. Andando avanti le cose sono andate abbastanza bene, sono arrivate le prime soddisfazioni e poi è arrivata l’opportunità di venire a giocare a Cantù, dove c'è sempre stata una squadra molto forte sia in Italia che in Europa e che quindi mi dava la possibilità di giocare nei palcoscenici più importanti: lottare per vincere il campionato, la Coppa Italia e la Champions, con i migliori giocatori al mondo. All'inizio non è stato semplice, c'era un abisso rispetto al livello al quale giocavo prima. Ho sempre pensato però che, se vuoi migliorare tanto, devi andare ad imparare dai migliori, in un contesto dove sei quello più scarso, ma nel quale hai l'opportunità di imparare tanto in tutti gli allenamenti e di cercare di ritagliarti il tuo spazio, lavorando giorno dopo giorno.
Da capitano della nazionale e colonna portante di Cantù, senti la pressione del ruolo di leader quando giochi partite in grandi palcoscenici?
Sicuramente oggi la sento meno che ad inizio carriera. Ricordo di aver vissuto bene la mia prima finale scudetto, come una grandissima opportunità, pur sapendo al tempo stesso che mi stavo giocando tantissimo sia dal punto di vista personale che da quello della squadra e della società, considerando tutto il lavoro che c'era stato durante l'anno. Oggi, all'alba di quasi trent'anni posso dire che il fatto di giocare delle grandi partite contro avversari forti mi stimola molto, mi dà quella carica e quell'energia che occorrono per tirare fuori il meglio di me e per aiutare al meglio delle mie possibilità la squadra. Ovviamente ci sono giornate dove riesce tutto, altre nelle quali non ti riesci niente e altre nelle quali sei al 50%. Quando ti carichi di troppe responsabilità non riesci a fare quello che vuoi fare. Bisogna sempre ricordarsi che la pallacanestro è uno sport di squadra: non si vince da soli, non si perde da soli ma si vince e si perde in cinque. Quindi giocare grandi partite credo che sia una gratificazione importante per tutto il lavoro che viene fatto durante la settimana ed io, sotto questo punto di vista, sono molto sanguigno. Mi piacciono le partite toste e fisiche, dove c'è da dimostrare di essere i più forti. È sempre stata la mia linfa: certe volte ci si riesce, certe volte no. Credo che questo sia il motore trainante per cercare di migliorarsi sempre più.
In questi anni quale pensi sia stata l'evoluzione del movimento, a livello di competitività delle squadre e di visibilità?
Cantù la definisco “un'isola felice”, perché è un contesto che ti permette di essere un giocatore a 360 gradi: sia per quello che porti sul campo, sia per quello che poi ti circonda ossia tutte le persone che lavorano intorno a questa società che cercano di metterti sempre nelle condizioni migliori per poter fare il tuo lavoro. In quanto a presenze nei palazzetti, specialmente in Italia, Cantù è il posto migliore per giocare, perché tutti i sabati il palazzetto è pieno. Viene fatto un grande lavoro di coinvolgimento: si va nelle scuole e si parla con i ragazzi per far conoscere lo sport paralimpico. Capita a volte invece che in certi palazzetti ci siano massimo dieci persone a vedere la partita. Questo perché ancora non è il pubblico a venire a cercare noi, ma siamo noi a dover cercare di coinvolgere i tifosi, cercando di farli appassionare. Quando fai un lavoro ben strutturato nel corso degli anni poi ottieni dei grandi risultati. Si stanno comunque ottenendo più risultati dal punto di vista della visibilità, se si considera che negli ultimi anni, tutte le finali e le partite più importanti della stagione vengono trasmesse in diretta RAI (come la finale di Supercoppa del 17 Dicembre, ndr), cosa che prima non era mai capitata. Ma bisogna lavorare sui progetti, coinvolgere ragazzi e famiglie, portando a conoscere quello che è lo sport paralimpico, perché magari tanta gente non sa cosa sia il basket in carrozzina. La direzione è quella giusta, anche se bisogna migliorare quella che è ancora oggi la visione dello sport Paralimpico.
Con la tua determinazione sei riuscito a ricostruirti una nuova vita, con una professione bellissima, arrivando anche al massimo livello. Cosa consigli ai ragazzi che si avvicinano allo sport paralimpico ed al basket in carrozzina in particolare?
Credo che la determinazione, in primis, mi abbia portato a capire che non arriva tutto subito, perchè ci sono dei momenti nei quali ti sembra veramente di essere alle stelle ed altri nei quali ti sembra di toccare il fondo. Credo serva sempre cercare di avere un equilibrio interiore, essere ben consci di quelle che sono le proprie capacità ed idee, e soprattutto quello che ognuno di noi può dare. Non si deve pensare di essere i migliori del mondo quando le cose vanno bene , nè i più scarsi della terra quando le cose vanno male, perché lo sport è questo: un giorno sei top e l'altro giorno tutti ti criticano, dicono che non sei più capace di fare quello che sapevi fare prima. Ovviamente ci vuole anche un po’ di fortuna, perché devi incontrare le persone giuste, che ti danno una possibilità, che credono in te e ti danno anche l'opportunità di sbagliare; troppo spesso si pensa che non si possa sbagliare, che quando hai un'opportunità devi per forza di cose dimostrare subito qualcosa, altrimenti magari poi ti si chiudono delle porte. Credo ci debba essere il giusto tempo per tutto: quando si comincia la prima cosa, in tutti gli ambiti della vita e dello sport, è divertirsi ed amare ciò che si fa, perché è da questa passione che si riescono a trarre le forze per andare avanti nei momenti difficili. A me, soprattutto nelle difficoltà, è sempre venuta da dentro la motivazione di mostrare il mio potenziale. Questo, affiancato ad una buona dose di talento e capacità, ti permette di andare lontano. Ma talento e capacità da sole non bastano: ci vuole anche una una dedizione al lavoro. Bisogna cercare di cercare di lavorare sempre per raggiungere i propri obiettivi: poi c'è chi lo raggiunge prima , c'è chi lo raggiunge dopo c'è chi non lo raggiungerà mai ma quantomeno non avrà rimpianti perché sa di averci provato.
Foto credit: Fabrizio Diral