Quali sono i giornali o le pagine social che riportano le informazioni nel modo più oggettivo possibile?
The Guardian, Reuters, Middle East Eye, Haaretz e Al Jazeera per i siti esteri. In Italia consiglio la traduzione italiana di Orient XXI, sito di approfondimento sul mondo arabo, e il manifesto. Oltre a ciò il programma Radio3Mondo offre una rassegna della stampa estera da ascoltare poi in podcast.
Studiare la storia del conflitto risalendo alle sue origini risulta un modo corretto per farsi un'opinione sulla questione?
Sì, è la cosa migliore. Gli eventi verificatisi il 7 ottobre non iniziano dal nulla, ma c'è un pregresso che possiamo far risalire anteriormente alla prima guerra mondiale. Il conflitto in sé va inteso attraverso la chiave del colonialismo di insediamento, ossia il progetto sionista di creare uno stato ebraico in Palestina, spostando una popolazione, in prevalenza dall'Europa, verso la Palestina stessa, al fine di creare uno Stato a maggioranza ebraica, operando anche una pulizia etnica. Nel 1948 è l'ONU a decretare la spartizione del territorio in due stati per ebrei e arabi, fondando lo Stato di Israele e dando inizio al primo di una serie di conflitti arabo-israeliani. La spirale di violenza a cui stiamo assistendo oggi ha le sue origini proprio in questo progetto coloniale, che deve essere riconosciuto, ma che non deve essere messo in discussione oggi, essendo ormai Israele una realtà storica che è lì per restare.
Esiste una responsabilità madre e se sì, ha senso rintracciarla?
C'è stata una gravissima responsabilità nella mancata mediazione internazionale del conflitto. Nell'ultimo decennio del XX secolo, una possibilità di raggiungere una pace era possibile, ma gli Stati Uniti d'America, la potenza egemone degli anni '90, da una parte e l'Unione europea dall'altra non hanno svolto il ruolo dei mediatori imparziali, di fatto consentendo all’attore più forte, Israele, di portare avanti le politiche di espansione territoriale senza alcuna forma di condizionalità negativa, facendo così fallire il processo di pace. L'Unione europea ha contribuito a finanziare il processo di pace, ratificato con gli accordi di Oslo, finanziando le istituzioni palestinesi, ma senza mai denunciare chiaramente la continua colonizzazione israeliana dei territori occupati palestinesi. Anche oggi manca una mediazione internazionale efficace. La posizione americana ed europea a sostegno del diritto all'autodifesa incondizionata di Israele non è basata sul diritto internazionale e non sta certo aiutando a limitare il numero delle vittime e a costringere gli attori del conflitto a trovare un compromesso. Dobbiamo tenere in conto che, a causa delle continue politiche di colonizzazione israeliana, la situazione nei Territori palestinesi occupati si è oramai molto deteriorata. Molti osservatori dicono che la soluzione dei due stati non sia più possibile, poiché la presenza di insediamenti israeliani nei Territori occupati è ormai troppo avanzata per poter consentire una reale sovranità palestinese, seppure in una piccolissima parte della Palestina storica. Oggi un'efficace e imparziale mediazione internazionale è più urgente che mai per poter, come dicono alcuni osservatori, “salvare Israele da sé stesso”.
Quali pregiudizi bisogna tenere in conto parlando con persone filo Israeliane o filo Palestinesi?
Se guardiamo a queste due popolazioni, oggi, sono più distanti che mai. Paradossalmente il “processo di pace” di Oslo ha provocato una molto più netta separazione dei due popoli: il cittadino medio israeliano sa poco o nulla di cosa succede aldilà del muro di separazione, mentre la popolazione araba-palestinese ha a che fare solo con l'esercito o con i coloni, ovvero con la parte più violenta e repressiva dello stato israeliano. A mancare da entrambe le parti quindi sono i contatti fra esseri umani. Questa separazione, molto più accentuata negli ultimi trent’anni, ha contribuito ad aggravare i pregiudizi e lo stesso conflitto. In Europa, il dibattito è influenzato dall’esperienza storica dell’anti-semitismo e della tragedia dell’Olocausto, soprattutto in Germania, e risulta a volte molto difficile parlare con i sostenitori di Israele, perché si viene immediatamente accusati di antisemitismo. La ‘questione ebraica’ europea rende Israele un caso speciale rendendo dunque meno visibile la natura coloniale del problema.
In che modo la questione religiosa (antisemitismo e islamofobia) influenza la lettura dei fatti?
La spiegazione religiosa non spiega il conflitto, poiché di tutt'altra natura, ma lo complica e lo rende pericoloso. L'attacco di Hamas non è un attacco contro gli ebrei, ma contro i rappresentanti dello Stato di Israele. Questo finisce comunque per coinvolgere le comunità ebraiche e musulmane, provocando fenomeni pericolosi in Europa.