Francesca Dall’Oglio ci ha parlato del docufilm, proiettato per la prima volta domenica 17 novembre, sulla vita di padre Paolo Dall’Oglio, suo fratello. Prodotto da Paola Columba e Fabio Segatori, regista del docufilm, per Babyfilms con il sostegno del Ministero della Cultura e la collaborazione di RAI Documentari, racconta l’esperienza di fede del gesuita rapito nel luglio del 2016 in Siria. Paolo era un ragazzo romano che da sempre ha condotto una vita alternativa immortalata in questo docufilm dalla sua giovinezza fino agli anni della predicazione. Nell’82 Paolo ha ventott’anni quando fonda una comunità di ragazzi e ragazze che vivono nel deserto dedicando la loro vita alla preghiera, al lavoro manuale e all’accoglienza: fedeli, curiosi, ma anche turisti, che accorrono da tutto il mondo. Il monastero viene restaurato con fondi italiani e siriani e dopo vent’anni finalmente la regola della comunità di Mar Musa viene approvata; ma nel 2011 scoppia la guerra civile: migliaia di siriani vengono torturati e uccisi, e Paolo si schiera dalla parte dei rivoluzionari. Il governo lo espelle dalla Siria. Il 29 luglio 2013 Paolo rientra clandestinamente a Raqqa per promuovere il dialogo nel Paese lacerato dalla guerra civile, ma viene sequestrato da un gruppo legato ad Al Qaida. Da allora non si hanno sue notizie, ma la nostra intenzione è quella di continuare a tenere la luce accesa, non solo perché è importante continuare a cercare la verità su padre Dall’Oglio ma anche perché il suo è un messaggio quanto mai attuale.
Francesca, parlaci del documentario.
Questo docufilm ha avuto una genesi abbastanza lunga perché prima di affidarlo al regista Fabio Segatori, che poi nel tempo abbiamo sempre più apprezzato per la sua competenza e la capacità di entrare in sintonia con Paolo, c’è voluto del tempo. Prima abbiamo collaborato noi fratelli, rilasciando delle lunghe interviste al regista; poi si sono attivati anche i suoi amici: dalla sua amica che stava con lui quando lavorava alla Magliana prima ancora che avesse la vocazione, ad alcuni amici scout; e poi anche i gesuiti che l’hanno accompagnato questi anni, con interviste a padre Lombardi, a padre D’Adamo; poi c’è l’Imam della Grande Moschea di Roma, Nader Akkad, presente anche alla prima; infine le persone che l’hanno accompagnato nella comunità che lui ha fondato a Mar Musa. Ecco, è un docufilm che tocca la figura di Paolo a tutto tondo.
La prima del film è stata domenica a Roma, ma venerdì 22 novembre sarà trasmesso su RAI Tre alle 16,10. Secondo me la presenza di Akkad è particolarmente significativa perché parliamo della proiezione di un film su un gesuita, quindi un sacerdote cristiano. La potenza del messaggio di Paolo è sta proprio nel riuscire a formare un dialogo tra le religioni. E in questo momento in cui il dialogo tra religioni manca totalmente nel Medio Oriente in guerra, forse la figura di padre Paolo può dirci qualcosa.
Esattamente, in questo momento il suo messaggio è quantomai attuale. Oggi rileggevo alcuni passi del suo ultimo libro, Collera e luce [Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana, 2013, EMI, Verona, n.d.r.], dove parla dell’incontro con un jihadista quando rientra clandestinamente in Siria nel 2012 per mediare per alcuni ostaggi, e di come riesca a trovare una via di dialogo con questo jihadista, basata non sulla confusione di idee ma sul rispetto reciproco, pur riconoscendo la diversità dell’altro. È questo l’aspetto principale di Paolo, che poi si è tradotto in una realtà di fatto nella fondazione della comunità di Deir Mar Musa, in un antico monastero in pieno deserto dove, per tradizione, ogni venerdì la comunità locale di musulmani celebrava il giorno santo. Così anche dopo la fondazione della comunità cristiana hanno continuato a fare, insieme ai pellegrini o agli ospiti che passavano di lì più o meno intenzionalmente, e così Mar Musa ha continuato a ospitare il dialogo tra fedi diverse in questi anni undici anni e mezzo da quando Paolo è stato rapito: la comunità è stata presente, anche negli anni più terribili della guerra (che peraltro ancora c’è in Siria) ha continuato a operare, cercando di supportare gli abitanti dei paesi limitrofi, istituendo una scuola di musica e facendo accoglienza.
Il regista Segatori ha detto che, più che un semplice omaggio, il film è un invito a riflettere sul ruolo del dialogo come strumento di pace, oggi necessario più che mai. Si tratta sicuramente di un’occasione di dialogo, come dimostra la presenza dell’Imam alla prima, ma il documentario dimostra anche la volontà di continuare a combattere per sapere la verità?
Senz’altro. In questi lunghi anni non ho mai smesso di cercare, in ultimo insieme a mia sorella mi sono opposta al decreto di archiviazione del fascicolo di Paolo. Certamente in Siria ci sono migliaia di scomparsi di cui non si hanno notizie, però Paolo è un caso molto atipico, ci sono state notizie molto contraddittorie, ora lo davano morto, ora vivo. Era una persona di grande rilievo che però poteva anche essere molto scomoda per i cosiddetti potenti della guerra. Io non dispero che si possa arrivare a una verità. Per la prima è stato scelto il 17 novembre per fare un regalo di compleanno a Paolo, che compie settant’anni, con un collage di tante persone che gli sono state vicino, che gli hanno voluto bene, con il quale hanno condiviso tanti aspetti, compresa la realizzazione della comunità. Io spero e ho fiducia nelle istituzioni che continuino a cercare la verità su di lui come io nel mio piccolo cerco di ottenere notizie su quello che può essere accaduto o, se è in vita, su dove possa essere.
Permettimi una domanda di più ampio respiro: come sai, la nostra trasmissione guarda al mondo della scuola e degli adolescenti, e tu sei stata anche professoressa di religione. Spesso è proprio questa materia, più ancora di storia (in cui si fatica a raggiungere la seconda guerra mondiale), ad aiutare i più giovani a trovare una chiave di lettura per quello che succede nel mondo. Forse può essere utile la predicazione di Paolo per aiutarci a capire il Medio Oriente e l’islam, e come può esistere un dialogo con la religione cristiana, al di là dei soliti pregiudizi. Si parla tanto, anche giustamente, di antisemitismo, ma poco si parla invece di tutti i pregiudizi che ci sono sulla religione musulmana, con la quale Paolo riusciva a dialogare. Il suo insegnamento può essere letto anche in questa direzione?
Sicuramente ci sono due tipi di messaggio: uno, condiviso dal regista e da me, che vuole evidenziare la figura di Paolo per farne un testimone della possibilità di vivere una propria vocazione in modo coerente, portando avanti un percorso verso l’esperienza di una cultura diversa. A partire dalla vocazione al sacerdozio, alla sua chiamata e fino al suo “farsi arabo”, come diceva a nostra madre quando andava a Damasco, Paolo è riuscito a conoscere e vivere una realtà diversa. E poi c’è l’altro aspetto, legato invece all’attualità di questo momento; devo ammettere che in questi anni mi è capitato più volte di avere notizie di persone andate in Siria che, incontrando la popolazione locale e parlando di Paolo, si sono accorte dell’amore nei suoi confronti, quasi della sua idealizzazione, non solo da parte dei cristiani, ma soprattutto dei musulmani della zona. Mio fratello Giovanni in Uganda ha incontrato una ragazza che quando l’ha scoperto fratello di Paolo è scoppiata in lacrime; così l’interprete turca di una nostra cugina, che alla notizia si è emozionata, come un tassista di Damasco incontrato da una mia amica giornalista, commossosi nel parlare di Paolo. C’è qualcosa di particolare che accompagna la sua figura. Certamente Paolo ha avuto i suoi limiti, ma ha sempre cercato di essere coerente nel portare avanti le sue idee. E come scrive in Collera e luce, è sempre stato anche pronto a dare la vita, senza cercare attivamente situazioni di pericolo, ma nello stesso tempo pronto a testimoniare le sue idee anche arrivando al sacrificio della vita.