Perché alcune guerre sono sotto i riflettori e di altre non si sa assolutamente nulla? La rubrica radiofonica "Latitudini del Silenzio", in onda ogni martedì nella trasmissione radiofonica La Giusta Frequenza, cerca di far luce sui conflitti dimenticati. Per capire cosa sta succedendo in Sudan abbiamo intervistato Gaia Giletta, esperta di malnutrizione per Medici Senza Frontiere, appena tornata dal paese africano. All’inizio dell’anno Medici Senza Frontiere è stata costretta a sospendere la propria missione nell'ospedale Bashair Teaching Hospital in Sudan perché, nei venti mesi in cui le équipe che hanno lavorato a fianco del personale ospedaliero e dei volontari, la struttura ha registrato ripetuti episodi di irruzione dei combattenti armati, i quali hanno minacciato il personale medico spesso chiedendo che i loro compagni fossero curati prima degli altri pazienti.
Gaia, che cosa è successo e perché MSF è stata costretta a sospendere questa missione?
In realtà MSF continua a lavorare in Sudan in altre zone ma ha dovuto sospendere il supporto all’ospedale Bashair di Khartoum, un polo che era molto importante, sia perché unico ospedale funzionante della capitale, sia perché polifunzionale: offre servizi di primo soccorso, di maternità, di chirurgia e di malnutrizione. Noi già da diversi mesi avevamo dovuto evacuare il personale internazionale da Khartoum perché era diventato impossibile rimanere a livello di sicurezza e fornivamo quindi da remoto un supporto di consulenza medica per quanto riguarda, ad esempio, la malnutrizione, ma provvedevamo anche al rifornimento di farmaci e di materiale, oltre che agli incentivi per lo staff che da diversi mesi non riceveva più il salario. Purtroppo nelle ultime settimane ci sono stati ripetuti attacchi al personale e ai pazienti e quindi per noi è diventato impossibile anche solo mantenere un supporto da remoto. La popolazione di Khartoum è completamente lasciata a sé stessa in questo momento, quasi non ci sono più organizzazioni umanitarie presenti nel suo territorio; in tutto il Sudan, comunque, in questo anno e mezzo di guerra, MSF ha registrato quasi ottanta attacchi diretti alle varie strutture e al personale medico.
Gaia, aiutaci a capire quello che sta succedendo in Sudan. Parliamo di una guerra di cui si parla pochissimo ma i numeri sono eloquenti: tra maggio 2023 e dicembre 2024 l’ospedale ha trattato 25.585 pazienti al pronto soccorso di cui più di 9 mila vittime delle violenze, con ferite da esplosioni o arma da fuoco. Nello stesso periodo, l’équipe ha eseguito 3.700 interventi chirurgici (la maggior parte dei quali legati a ferite legate alla violenza) e assistito a quasi 3.800 parti, inclusi 850 cesari. Oltre a ciò stanno dilagando epidemie di malaria, colera e dengue. Cosa sta succedendo in Sudan, sia dal punto di vista politico sia da quello umano? La situazione era drammatica già prima dello scoppio del conflitto e adesso sta diventando irrimediabile…
Il Sudan vive ormai da decenni in una situazione di instabilità e ha visto molte guerre. Quella che è scoppiata nell’aprile 2023 vede contrapposti due gruppi armanti, le Sudan Armed Force e le RSF [Forze di Supporto Rapido, ndr]. Questi due gruppi, subito dopo la destituzione del presidente Omar al-Bashir, avevano collaborato per cercare di costituire un governo civile; poi hanno cominciato a scontrarsi e le violenze sono rapidamente dilagate in tutto il territorio. È una guerra molto dinamica in cui le linee di confine cambiano continuamente ed è sanguinosissima, con bombardamenti, violenze a sfondo etnico e moltissima violenza sessuale. Se ne parla pochissimo anche perché non ci sono fonti giornalistiche presenti sul territorio e quindi abbiamo a disposizione pochissime fonti di prima mano. È un conflitto che ad oggi ha provocato circa 12 milioni di sfollati, in parte all’interno del Paese e in parte nei Paesi circostanti, già in condizioni difficili, come il Ciad, l’Etiopia e il Sud Sudan. Il Sudan aveva già delle problematiche di salute importanti, come epidemie di malaria, di dengue, di morbillo, poi da quando è scoppiata la guerra è completamente collassato. Da allora il Sudan fa riferimento solamente alle Organizzazioni Internazionali che, tra l’altro, hanno tantissimi problemi di accesso, sia per quanto riguarda i materiali, sia per quanto riguarda lo staff. Tra le emergenze sanitarie, sicuramente la prima sono le ferite traumatiche da guerra (ustioni, fratture, ferite da arma da fuoco), poi la malnutrizione —ad oggi si stima che in Sudan ci sia la peggiore crisi alimentare del pianeta, con 25 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza alimentare e un bambino su cinque che soffre di malnutrizione. Il Sudan è anche uno dei paesi del continente africano che soffre di più la crisi climatica: da una base povera di risorse alimentari, le persone sono dovute scappare abbandonando le coltivazioni. Si è aggiunta l’altissima inflazione e l’importazione non esiste quasi più. Attualmente, la possibilità delle persone di far fronte ai bisogni è praticamente nulla. Oltre a ciò ci sono diverse malattie croniche e c’è moltissimo bisogno di fare assistenza per la salute mentale perché ovviamente i traumi in seguito agli episodi di violenza sono importanti.
Tu sei esperta di malnutrizione, conosci bene il Sudan, sei appena rientrata da una missione. Quando si parla di queste situazioni apocalittiche i numeri non bastano. C’è qualche storia tra le tantissime di cui hai avuto a che fare che ti è rimasta particolarmente nel cuore o che per te è particolarmente simbolica di quello che sta succedendo?
Io ero di base in Darfur e ho fatto supporto da remoto, ma lo staff locale con cui ero in contatto ogni giorno mi raccontava di un aspetto chi mi è rimasto impresso: i bambini tra gli zero e i sei mesi spesso non vengono neanche considerati nei progetti di supporto alimentare perché sono una categoria protetta dall’allattamento, che quindi non ha bisogno di fare affidamento sul cibo. In realtà a Khartoum abbiamo tantissimi casi di malnutrizione nei bambini al di sotto dei sei mesi e tantissimi casi di malnutrizione acuta grave, la forma più seria e a più alta mortalità. Questo perché le madri sono così malnutrite da non riuscire più a produrre latte, per cui questi bambini vengono nutriti a “acqua di riso”: l’acqua dentro alla quale viene ammollato il riso prima di cucinarlo, e questa è la loro unica fonte di sostentamento, quindi ovviamente si ammalano e muoiono. Questo è forse l’unico posto al mondo dove ho visto un impatto del genere in bambini così piccoli.
Sicuramente ti sarai chiesta, sebbene non sia facile trovare una risposta: perché non se ne parla? Perché, secondo te, sui nostri media c’è così poco spazio per il Sudan e per il dramma che sta accadendo lì?
Credo che sia perché in questo momento la crisi del Sudan viene vissuta come una guerra “che non ci riguarda” rispetto ad altri conflitti geograficamente e culturalmente più vicini a noi, come quello in Ucraina. Percepiamo il Sudan come lontano, come diverso, come un luogo che non ha nessuna influenza su quella che è la nostra vita. Ci dimentichiamo che in realtà viviamo in un mondo in cui ormai non esiste niente che sia lontano o che non sia connesso e che queste crisi, queste guerre hanno un impatto su di noi, sulla nostra politica e anche sulla situazione globale.
Pochi mesi fa abbiamo intervistato Federica Iezzi, una tua collega di Medici Senza Frontiere appena tornata da Gaza e che sarebbe ripartita poco dopo —trovate l’intervista sul numero di dicembre di Zai.net, distribuito nelle scuole secondarie di tutta Italia. A lei abbiamo chiesto: come si fa ad andare a dormire sereni con la consapevolezza di drammi del genere a pochi passi da noi?
Non lo so, questa è una bella domanda, io ad esempio non ci riesco, forse anche per questo ho scelto di fare questo lavoro. Perché non riesco a guardare dall’altra parte. Io credo e spero che, essendo sempre più connessi e in grado di trovare le informazioni relative ai Paesi che percepiamo come lontani, di sapere quello che accade agli esseri umani che ci sembrano lontani, arrivare a queste informazioni ci renda sempre meno ciechi. Mi chiedo come facciano i politici e coloro i quali guadagnano da queste situazioni ad andare a dormire. Probabilmente il fatto di non viverle in prima persona aiuta sicuramente, però anche vederle da lontano dovrebbe bastare…