Greta vive a Milano, ha quattordici anni e due grandi passioni: il nuoto e gli unicorni. Non è mai stata in Bosnia, paese di origine del padre Edin, che non le ha mai raccontato nulla né della sua infanzia né della guerra. Dal passato, però, non si può fuggire, e così Greta si ritrova a scavare nella storia della sua famiglia, tornando laggiù dove tutto è cominciato. Città d’argento è una potente testimonianza contro l’odio, un libro che parla del passato ma insegna tanto anche sul presente. A trent'anni dall’inizio della guerra in Bosnia, abbiamo intervistato l’autore del libro, Marco Erba.
Com’è nata l’idea di questo romanzo?
L’idea è nata quando il mio amico Marco mi ha invitato in Bosnia, paese del quale non sapevo nulla. La guerra, avvenuta quando ero un ragazzo delle medie, veniva raccontata come uno scontro di etnie impazzite che si massacravano tra di loro. In realtà, la guerra è nata per delle precise azioni politiche e militari. Per creare consenso, alcuni politici hanno fatto leva sulla pancia delle persone, imbottendole di paura. Ben presto la paura è diventata odio, per poi trasformarsi in violenza. Dobbiamo stare in guardia da certe dinamiche, perché le vediamo anche nella politica italiana e nella politica europea. Conoscerle è come vaccinarsi contro l’odio strumentalizzato. Il secondo motivo per cui ho deciso di scrivere questo romanzo è che quando racconto di Srebrenica ai ragazzi, nessuno sa di cosa parlo e invece lì è avvenuto il più grave genocidio della storia europea contemporanea. Infine, c’è una ragione molto più personale. Io tendenzialmente non ho un bel carattere: nel mio piccolo, tendo ad essere rancoroso e anche un po’ vendicativo. Quando conosci persone che hanno vissuto una guerra, capisci che il seme dell’odio a volte ti fa sentire forte ma in realtà avvelena la tua vita. Dobbiamo tutti quanti, io per primo, disintossicarci dal vedere l’altro come un nemico e dall’odio che abbiamo dentro.
Il titolo “Città d’argento” si riferisce a Srebrenica. Qual è il significato di questo nome? Che ruolo ha avuto la città nella guerra?
Srebrenica tradotto in italiano significa “città d’argento”. Quindi il titolo rimanda in parte all’etimologia della città ma anche all’idea che c’è qualcosa di prezioso da imparare da quella tragedia. A Srebrenica, città musulmana circondata dal territorio serbo, era normale vedere una moschea vicino a una chiesa, e buona parte dei matrimoni erano misti. Quel luogo, emblema di secolare convivenza tra religioni e tra popoli, è diventato teatro di un massacro terribile. A Srebrenica sono morti più di 8.000 musulmani in pochissimi giorni e alcuni di coloro che li ammazzavano lo facevano con una croce sul petto, in nome di Dio. In tempi in cui si parla di Isis e di religione strumentalizzata, questo è un esempio per mostrare che ogni religione quando viene strumentalizzata porta a morte e distruzione.
Molti giovani non sanno nulla del conflitto in Bosnia. Secondo lei, a distanza di 30 anni dallo scoppio della guerra, perché è importante ricordare quanto successo?
Prima di tutto, in questo momento c’è molta tensione in Bosnia, ancora una volta a causa dei politici nazionalisti. Un politico di etnia serba, Milorad Dodik, ha dichiarato che i libri non dovrebbero parlare del genocidio di Srebrenica perché non è mai avvenuto. Lo stesso Dodik ora chiede la secessione della Repubblica Serba di Bosnia, una delle due parti in cui la Bosnia è divisa. Inoltre, in Bosnia durante la guerra ci sono stati dei campi di concentramento. La gente veniva chiusa dietro un filo spinato per ragioni etniche e religiose, esattamente come avveniva nella Seconda guerra mondiale. Bisogna assolutamente raccontare queste cose, perché il futuro è nelle mani di voi ragazzi e ragazze. Se fin da giovani si sentono certe storie e si incontrano persone, magari anche di fantasia come in un libro, forse i fili spinati non li vediamo più. Bisogna lanciare un messaggio di grande speranza nel futuro, ricordandosi però che la speranza non piove dal cielo, va costruita giorno per giorno.
Il tema dell’odio ha un ruolo centrale nel romanzo: pressocché ogni personaggio conduce una battaglia personale contro questo “veleno”. Cosa possono insegnarci le loro storie?
Secondo me le storie vanno lette, poi ognuno porta a casa il suo insegnamento. Io ad esempio ho imparato tanto da Sena, un personaggio secondario nel libro ma autentico al 100%. Sena è una donna musulmana che ha vissuto nella Sarajevo assediata e ha perso un figlio ammazzato da un cecchino serbo. Dopo la guerra ha aperto un locale notturno ed ha assunto un cameriere serbo che durante il conflitto faceva il cecchino e sparava dalla collina dietro casa sua. Potrebbe essere colui che ha tirato il grilletto o un commilitone di quello che ha ucciso suo figlio, eppure lei l’ha assunto. Sena mi ha detto: “Tante volte noi uomini parliamo di giustizia ma la giustizia non la sappiamo fare. Diciamo giustizia ma intendiamo il nostro desiderio di vendetta. Non è questione di giustizia, la questione è scegliere se continuare a odiare avvelenando la nostra vita e quella degli altri o perdonare e provare a costruire qualcosa di nuovo”. Lei mi ha proprio detto: “Io o impazzivo per il dolore di aver perso un figlio o perdonavo. Ho perdonato e ti dico che ne vale la pena”. Altra testimonianza preziosa è quella di Dubravka, un’altra donna che ha vissuto nella Sarajevo assediata: “Io avevo amici serbi prima della guerra e ho ancora amici serbi dopo la guerra, perché ho vissuto in una prigione a cielo aperto e non consento più a nessuno di imprigionarmi, neanche al mio odio. Per questo io non odio nessuno”. Sentendo queste storie, capisci che anche nelle condizioni più estreme esiste un’umanità diversa. Forse il messaggio è questo: è possibile trovare un’altra strada, fatta di ponti e non di muri.
Nel suo libro parla anche dell’odio sui social. Cosa pensa di questo fenomeno sempre più diffuso?
I social possono essere una grandissima occasione perché hanno un’incredibile capacità di mettere in contatto la gente. Il problema è che, non vedendo l’altra persona faccia a faccia e non potendo contare sull’empatia che si crea, è molto più facile essere aggressivi, violenti e taglienti. Serve una grande sensibilizzazione fin da bambini, bisogna far passare l’idea che quello che si ha in mano è uno strumento potente e che le parole sono armi. Si tratta anche di riscoprire la gentilezza nel linguaggio. Io non sono d’accordo con alcuni comici che difendono l’utilizzo di parole come “frocio” o “negro”. Anche in Bosnia hanno cominciato a chiamare i musulmani balija, un termine dispregiativo. Prima sono cambiate le parole, poi è arrivata la violenza. Con questo non voglio difendere il politically correct a tutti i costi, che a volte è davvero fastidioso, però dobbiamo stare attenti alle parole e dire le cose rispettando la dignità e la scintilla di bellezza che c’è nell’altro.
È mai stato in Bosnia? Quale significato ha per lei questo Paese?
Ci sono stato due volte, nel 2018 e nel 2019. È un paese bellissimo naturalisticamente e con tanta storia particolare perché è un ponte tra Oriente e Occidente. La cosa più bella sono ovviamente le persone, si fanno degli incontri incredibili. Ad esempio, ho conosciuto un personaggio storico, Jovan Divjak, un generale di etnia serba che ha difeso Sarajevo, città a maggioranza musulmana, durante l’assedio. Mi ha detto: “Io sono un eroe per la gente di Sarajevo, per i serbi nazionalisti sono un traditore del mio popolo. Ho difeso Sarajevo perché quando sono diventato soldato ho giurato di difendere i più deboli e in quel momento i deboli erano i civili di Sarajevo”. Quando incontri personaggi come Divjak, Sena e tanti altri ti resta dentro qualcosa di grandissimo. Faccio fatica a dire cosa rappresenta per me la Bosnia. Certamente è un luogo del cuore dove bisogna tornare e dove, a livello di qualità di relazione e di accoglienza, si sta davvero molto bene.