La vita accanto
Elogio della bruttezza
Per chi cerca il proprio posto nel mondo
Redazione | 17 ottobre 2011
Da insegnante a scrittrice di successo, vincitrice del premio Calvino 2010 e finalista allo Strega, Mariapia Veladiano ci parla del suo fortunatissimo esordio, ma anche dei ragazzi e del ruolo della scuola.
Come è nato La vita accanto?
«È come se ad un certo punto la storia avesse detto: “sono qui e chiedo di essere raccontata”. Credo che qualcosa sia venuta dalla scuola: nei ragazzi ho visto crescere la paura di non essere accettati, di non riuscire a trovare il loro posto nel mondo».
Molti studenti hanno votato per lei allo Strega. Forse perché si sono rivisti in questa paura?
«I voti degli studenti sono stati davvero una sorpresa, la cosa più bella che mi sia capitata. Credo che li abbia colpiti una storia di emarginazione, come quella di Rebecca, che viene superata non da soli ma insieme».
La scuola può avere un ruolo nel superamento di queste difficoltà?
«La scuola è il laboratorio della nostra convivenza con gli altri. La cultura aiuta a superare le differenze: i dislivelli sociali sono progressivamente eliminati nel processo di comprensione reciproca. Non esiste un’altra istituzione capace di parlare a tutti».
È vero che oggi gli studenti non sanno più scrivere?
«È oggettivo che ci sia un impoverimento culturale generale, quindi anche della lingua. I ragazzi hanno a disposizione meno mezzi espressivi, ma perché è la lingua d’uso ad essersi impoverita. Loro usano la lingua che gli viene offerta da giornali o televisione. Io dico sempre che il capirsi è frutto di sfumature: se abbiamo poche parole abbiamo anche tanti fraintendimenti».
La vita accanto è il suo romanzo d’esordio. Quanto è stata dura farsi pubblicare?
«In realtà è stato semplice: ho vinto il premio Calvino, per esordienti, con un manoscritto inedito, senza conoscere nessuno nel settore. Dopo sono venute le proposte delle case editrici e tra queste ho scelto Einaudi. Il mio caso è un po’ atipico: non ho fatto il giro degli editori, il primo romanzo che desideravo venisse pubblicato è stato effettivamente pubblicato».
La sua protagonista “brutta” ha conquistato i lettori. Si può dare una reale definizione di ciò che è bello e ciò che è brutto?
«Per il brutto ho una definizione mia: lo è tutto ciò che rende peggiore il mondo e la vita delle persone. È brutta, paradossalmente, anche certa bellezza, se esibita contro qualcuno o finta. È bello, invece, tutto ciò che restituisce al mondo un pezzetto della sua autenticità».
Quale suggerimento si sentirebbe di dare a chi ha la scrittura come sogno?
«Innanzitutto di leggere: fanno un po’ impressione quelli che dicono: “io non leggo niente ma scrivo tanto”. Ascoltare il suono della scrittura degli altri è fondamentale. Poi, non innamorarsi della propria parola: bisogna uscire da sé e coltivare la bellezza di un testo ovunque si trovi».
(A cura di Marzia Mancuso)
Come è nato La vita accanto?
«È come se ad un certo punto la storia avesse detto: “sono qui e chiedo di essere raccontata”. Credo che qualcosa sia venuta dalla scuola: nei ragazzi ho visto crescere la paura di non essere accettati, di non riuscire a trovare il loro posto nel mondo».
Molti studenti hanno votato per lei allo Strega. Forse perché si sono rivisti in questa paura?
«I voti degli studenti sono stati davvero una sorpresa, la cosa più bella che mi sia capitata. Credo che li abbia colpiti una storia di emarginazione, come quella di Rebecca, che viene superata non da soli ma insieme».
La scuola può avere un ruolo nel superamento di queste difficoltà?
«La scuola è il laboratorio della nostra convivenza con gli altri. La cultura aiuta a superare le differenze: i dislivelli sociali sono progressivamente eliminati nel processo di comprensione reciproca. Non esiste un’altra istituzione capace di parlare a tutti».
È vero che oggi gli studenti non sanno più scrivere?
«È oggettivo che ci sia un impoverimento culturale generale, quindi anche della lingua. I ragazzi hanno a disposizione meno mezzi espressivi, ma perché è la lingua d’uso ad essersi impoverita. Loro usano la lingua che gli viene offerta da giornali o televisione. Io dico sempre che il capirsi è frutto di sfumature: se abbiamo poche parole abbiamo anche tanti fraintendimenti».
La vita accanto è il suo romanzo d’esordio. Quanto è stata dura farsi pubblicare?
«In realtà è stato semplice: ho vinto il premio Calvino, per esordienti, con un manoscritto inedito, senza conoscere nessuno nel settore. Dopo sono venute le proposte delle case editrici e tra queste ho scelto Einaudi. Il mio caso è un po’ atipico: non ho fatto il giro degli editori, il primo romanzo che desideravo venisse pubblicato è stato effettivamente pubblicato».
La sua protagonista “brutta” ha conquistato i lettori. Si può dare una reale definizione di ciò che è bello e ciò che è brutto?
«Per il brutto ho una definizione mia: lo è tutto ciò che rende peggiore il mondo e la vita delle persone. È brutta, paradossalmente, anche certa bellezza, se esibita contro qualcuno o finta. È bello, invece, tutto ciò che restituisce al mondo un pezzetto della sua autenticità».
Quale suggerimento si sentirebbe di dare a chi ha la scrittura come sogno?
«Innanzitutto di leggere: fanno un po’ impressione quelli che dicono: “io non leggo niente ma scrivo tanto”. Ascoltare il suono della scrittura degli altri è fondamentale. Poi, non innamorarsi della propria parola: bisogna uscire da sé e coltivare la bellezza di un testo ovunque si trovi».
(A cura di Marzia Mancuso)
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