Kento racconta la sua esperienza sulla Ocean Vikings a Conversazioni. Coordinate sgrammaticate di democrazia
Hiphop e solidarietà sono un binomio efficace? Sembrerebbe di sì basandosi sull’esperienza di Kento, al secolo Francesco Carlo, che è salito a bordo della Ocean Viking di SOS Méditerranée per aprire un “corridoio artistico” che potesse dare dignità e voce a chi è emarginato e oppresso, trasformando l’arte in uno strumento di solidarietà attiva, portando musica alle persone salvate in mare. Un principio di cui la rete Keep It Real per la valorizzazione dell’hiphop come strumento educativo e di inclusione sociale si fa promotrice.
Kento ha raccontato la sua esperienza all’ultimo appuntamento di Conversazioni. Coordinate sgrammaticate di democrazia, la rassegna di ÀP, Antimafia Pop – L’Accademia che intende affrontare le sfide del presente e alimentare uno sguardo capace di costruire futuro. L’appuntamento di mercoledì scorso, 11 dicembre, a Biblioàp, lo spazio polifunzionale ricavato dai locali sottoutilizzati dell’IIS Enzo Ferrini di Roma era intitolato, riprendendo il saggio di Primo Levi, “I sommersi e i salvati”. L’evento è nato dalla necessità di discutere su temi universali come la dignità, i diritti umani, la responsabilità collettiva per riflettere sul dramma contemporaneo delle migrazioni nel Mediterraneo, dove uomini, donne e bambini sono costretti a lottare per il diritto alla vita, spesso trovandosi vittime di oppressioni sistemiche che ricordano, in modo altrettanto urgente, le ferite dell’olocausto.
In questa cornice si è sviluppato il racconto di Kento, che in prima persona ha vissuto l’esperienza drammatica del salvataggio dei migranti in mare: “Tutto ha cominciato a cambiare in maniera molto repentina una volta che sono salito a bordo dell’Ocean Viking, dove mi trovato per fare cose legate alla musica. Una volta arrivato lì ho cominciato gli addestramenti fisici, da tutti eseguiti in maniera incredibilmente seria, anche chi sta da vent’anni in mare. A un certo punto mi viene chiesto se fossi disponibile a dare una mano su uno dei gommoni che materialmente vanno a effettuare la prima fase del soccorso”.
“Io mi sono fregato con le mie mani nel momento in cui ho accettato”, ha ammesso Kento, “sia per l’addestramento serissimo che ne è seguito, sia per il livello di coinvolgimento emotivo implicato. Infatti, ancora una volta, il mio sentimento relativo alla missione si è trasformato: a quel punto ti eserciti a fare il primo soccorso al manichino che rappresenta un neonato, a fargli il massaggio cardiaco con il pollice. Ti ritrovi su questo gommone che sfreccia a settanta all’ora sull’acqua ti sembra di volare e mentre fai il massaggio cardiaco al neonato pensi ‘domani questo sarà un bambino reale e io dovrò resuscitarlo perché se no morirà’. O ancora, ti viene spiegata la procedura se si incontrano cadaveri, le norme igieniche, gli strumenti per raccoglierli, eccetera. Ti carichi psicologicamente a un livello che non mi sarei mai aspettato”.
Il racconto prosegue: “Arriva il momento del salvataggio e per parecchi minuti la nave è diventata una nave fantasma, c’era un silenzio irreale, sentivi solo il rumore dei motori. Poi siamo saliti tutti quanti in silenzio, ci siamo messi gli stivaloni, la salopette impermeabile, il coltello legato alla salopette, il giubbotto impermeabile, i guanti e il casco. E solo a quel punto il silenzio è stato rotto dal capo salvataggio che ha detto soltanto tre parole, ‘ready for rescue’. A quel punto ci siamo messi sui gommoni e a un certo punto ho visto un barchino, di quelli da sette persone: sopra c’erano quarantotto ragazzi”.
“Era uno di quei gommoni molto economici, fatti praticamente di carta velina, e si vedeva che si stava ammosciando sotto il peso dei passeggeri. Mentre mi avvicinavo vedevo meglio i ragazzi, e vedevo che nessuno urlava, nessuno piangeva, nessuno si muoveva; erano catatonici. Lo chiamano ‘effetto sottomarino’ perché succede ai sottomarini quando stanno affondando: quando non c’è più nessuna speranza di salvezza arriva la calma. Loro avevano accettato la morte, sapevano che da lì a pochi minuti il barchino avrebbe finito per affondare e loro sarebbero morti. Avevano accettato la morte. Quarantotto ragazzi quasi tutti minorenni”.
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“Erano stati divisi per tre gommoni”, prosegue Kento, “Quando il secondo gommone, dopo aver distribuito i giubbotti, comincia a caricarli, dal terzo vediamo una prua che arriva dall’orizzonte con due schizzi d’acqua più grandi della prua stessa. Era la motovedetta libica. A quel punto il secondo gommone carica la trentina di ragazzi rimanenti (il capitano del secondo gommone e quello del terzo non si sono mai parlati, si sono solo guardati negli occhi un attimo e hanno capito) e torna alla nave. Noialtri sul terzo abbiamo fatto una manovra diversiva per far avvicinare i libici. Loro arrivano frontalmente. Sono armati. Appena arrivano a distanza di vista si rendono conto che noi non abbiamo nessuno a bordo e fanno una manovra per mandare un’onda sul gommone. Ho il tempo di leggere il numero sulla fiancata della motovedetta, 660”.
“Quella è una delle imbarcazioni date dal governo italiano alla Libia nell’ottica dei famigerati accordi bilaterali tra i due Paesi. Vi ricordate la storia del pescatore siciliano che tre o quattro anni fa fu ferito da una motovedetta libica? Ecco, quella è l’imbarcazione tristemente nota. Un mezzo italiano, con armi italiane, probabilmente anche con proiettili italiani, ha sparato a un cittadino italiano. Quelli hanno fatto questa scena pericolosa, intimidatoria, terrorizzando i ragazzi che chiaramente venivano dall’inferno della Libia e creando tutto questo casino”.