Musica
Cristiano De Andrè si racconta
Live report from Varese
Aldo Macchi | 16 dicembre 2015

Cristiano De André arriva a Varese, per la prima volta su un palco che ha visto più volte il padre esibirsi, davanti a un pubblico a cui svela subito un aneddoto: “L’uomo che ha sposato mia madre dopo mio padre era di Varese, ecco”. Ma di colpi, ferite, sofferenze è fatta la vita, come ha spiegato il cantautore genovese: “Ognuna di esse ha una bellezza dentro di sé, ti spinge a trovare una soluzione che porta poi una serenità”. Ed è questo lo spirito dell’Acustica Tour, un abito nuovo fatto di vestiti propri e una parte del repertorio del tour “De Andrè canta De Andrè” che tornerà nel 2016 con il terzo album della trilogia. Cristiano De Andrè, canta, lo fa però come colui che con la musica racconta, e tra una canzone e l’altra parla, si racconta e ci racconta. Perché ognuno di noi a un concerto simile non può soltanto pensare di ascoltare una canzone come potrebbe fare comodamente seduto sul divano di casa. Se senti parlare un artista di sofferenza personale, se ti fai testimone di frasi come: “Un giorno capisci che non devi uscire da un cognome, ma accettarlo”, allora non puoi che andare oltre l’ascoltare ed entrare nell’accogliere un’arte che è vita, comunicazione e quell’anima che lo stesso De André ha definito: “Qualcosa di cui dobbiamo in ogni modo riappropriarci prima che cada definitivamente nella discarica del tempo perduto”.

DE ANDRÈ CANTA DE ANDRÈ – Inizia con le sue canzoni più forti, a cominciare da “Nel bene e nel male”, un biglietto da visita niente male per chi conosce i trascorsi, per chi segue un uomo che ha fatto della musica la sua vita, per scelta o per necessità, forse per entrambe le cose, ma che col tempo ha imparato a conviverci e farla sua: “Passeranno le cose nel bene e nel male… passeremo anche noi”. Ma non mancano i messaggi, in quel cinismo, utopico, anarchico si sta facendo sempre più esplicitamente largo quell’ottimismo consapevole e disincantato che vede la "decadenza, quest’odore di basso impero” descritto in Credici. Chi ha vissuto il periodo del cantautorato italiano degli anni settanta sa bene quanto gli spettacoli fossero sempre più un confronto, una discussione accompagnate da spazi musicali che in realtà enfatizzavano in note i concetti espressi a parole. E al Teatro Apollonio di Varese tutto questo è andato in scena. Non ci sono effetti speciali in chi fa dell’essenza della musica il suo spettacolo.  E così tutto si lascia trasportare, dal generale si passa al particolare, fino a bussare alla porta dell’intimo di “Disegni nel vento”, una canzone scritta da un padre ai figli e affidata al mondo. De André canta De Andrè, il figlio, o semplicemente Cristiano, e mi piace giocare con le parole di poesia che potrebbero rendere queste prime canzoni un unico messaggio: “Alla fine anche noi passeremo, passeranno canzoni ascoltate per un lungo momento che ci vivono accanto a dispetto del tempo, passeranno poi tutte le cose nel bene e nel male . A meno che non sia ancora preistoria questo parlare senza ascoltare e non avere memoria... Credici. E lascio i miei sogni a te, per non essere più così soli. E tengo i ricordi per me, ma come in un battere d'ali. E davanti a Dio mille anni è un addio, attraverso una lacrima e il tempo, saremo io e te, disegni nel vento”.

DE ANDRÈ CANTA SUO PADRE – Entrati nell’intimità si scopre il grande macigno che nel tempo è diventata forza. “Un modo salvifico di ricordare mio padre” ha confermato Cristiano, e non canta suo padre solo nel senso grammaticale del termine, ma è un suo che sa di appartenenza e di conquista, un lavoro fatto con cicatrici che restano nella voce, in pezzetti che il vento raccoglierebbe, dice la prima canzone rivestita delle interpretazioni di chi meglio interpreta le canzoni di Faber, di chi le ha vissute sulla sua pelle, in tour o in casa. Si parla di libertà, di religiosità di amore sul palco: quello puro, di Gesù: “Che se non è figlio di Dio di sicuro ci si è avvicinato parecchio. Se non ci fosse stato lui ci scanneremmo molto di più di quanto già non facciamo”. Ma non è una conversione quella di Cristiano De André è il capitolo successivo di quella profonda ricerca dell’anima aldilà di ogni umana sofferenza. È attraverso Nella mia ora di libertà, Verranno a Chiederti del Nostro Amore, Lady Barcollando, Andrea, La cattiva strada e Un giudice che il figlio riscopre il padre, lo apprezza, lo ama. Lo ama di quell’amore che appartiene alle sue canzoni, lo incontra lì, con quel timbro che unito alle luci davvero fa sembrare un tutt’uno quella simbiosi di anima e ricordo.

DE ANDRÈ SI CANTA – In questo percorso mistico che è l’acustica tour si entra nella parte davvero più profonda, tornando a una canzone sua, quell’Invisibili dedicata alla sua generazione, sterminata dalla droga e eliminata troppo presto, facendo disperdere ideali e forza: “Abbiamo sbagliato, ma possiamo ancora farcela”. È la canzone del ritorno a Sanremo, la canzone dell’amore vicendevole, la sua Genova che lo ha reso patrimonio dell’Unesco (con la canzone Notti di Genova). È la città di Megun Megun, di Creuza De Ma’, A Dumenega. È la terza parte del suo cuore. Canta il suo nome, canta suo padre, e infine canta sé stesso, si consegna al pubblico che lo invoca. Non si nasconde e condivide i suoi vizi, quella pipetta al mentolo che ha divertito il pubblico. Lui è la boccata di mentolo per il pubblico, le sue frasi, l’artista e l’uomo sullo stesso palco.

BIS – Torna sul palco anche dopo, lo fa per dare un riassunto di ciò che è stato, se qualche passaggio è andato perso ecco tutto sottolineato nuovamente. Cristiano De André è un Ingenuo Romantico, cresciuto e vissuto nelle Notti di Genova, nelle stesse vie vissute e descritte da un padre che ora canta senza sofferenza, canta le persone come Bocca di Rosa, con uno sguardo all’amore per la Sardegna, ugualmente descritta con semplicità e quotidianità del lucertolaio, Zirichiltaggia. Lo fa con gli occhi di chi da bambino, inconsapevole di ciò che sarebbe stato, osserva da una fessura suo padre che parla con sua madre, che le canta la Canzone Dell’Amore Perduto, non una canzone, ma la canzone. E sentire, ogni volta, quella canzone cantata da Cristiano De André, smette di essere una canzone del padre, smette di essere un simbolo di un periodo storico e diventa, ogni volta, il simbolo dell’anima che torna dentro al corpo stremato che la invoca. La serenità dopo la sofferenza, la vita, l’amore, l’utopia che diventa paradossalmente realtà.

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