Uomini che inseguendo sogni proibiti hanno appassionato intere generazioni. Sportivi che hanno trovato il loro più grande avversario nella bigotta e radicata società. Questo è il caso dell’atleta statunitense Jesse Owens, pluricampione olimpico alle Olimpiadi di Berlino del 1936 – vinse ben 4 ori – che ha dovuto attendere anni per vedere riconosciuti i suoi meriti sportivi in patria a causa del colore della pelle. Ma secondo alcune fonti anche durante le premiazioni alle Olimpiadi le cose non erano andate tanto diversamente. La vicenda di Owens è stata recentemente raccontata nel film di Stephen Hopkins Race, che si concentra proprio sui giochi olimpici del ’36, in pieno regime nazista in Germania. Il film sposa una versione dei fatti secondo cui durante le premiazioni Hitler, indignato dalla vittoria di Owens, si sarebbe ritirato anzitempo dalla manifestazione. Tutto ciò fu smentito dallo stesso Owens, che in un’intervista dichiarò: «Dopo tutte queste storie su Hitler e il suo affronto, quando sono tornato nel mio Paese non potevo ancora sedermi nella parte anteriore degli autobus ed ero costretto a salire dalla parte posteriore. Non potevo vivere dove volevo. Allora qual è la differenza?».
Owens continuò la sua carriera sportiva nonostante i continui insulti razzisti. Solo molto più tardi gli giunsero gli onori dovuti: nel 1976 gli fu consegnata la medaglia presidenziale della libertà, accompagnata dalla dichiarazione dell’allora presidente Ford: «Owens ha superato le barriere della segregazione e del bigottismo mostrando al mondo che un afro americano appartiene al mondo dell’atletica».
Un lungo destino di ingiustizia è toccato anche a Peter Normann, nome sconosciuto ai più. Fu secondo classificato nei 200 metri alle Olimpiadi del 1968, alle spalle di Tommie Smith e davanti a John Carlos, afro-americani conosciuti per il loro gesto di protesta avvenuto durante la premiazione. I due infatti alzarono un pugno coperto da un guanto nero al cielo come segno di protesta ai continui gesti razzisti che avvenivano in tutto il mondo. Normann in gesto di solidarietà indossò la coccarda simbolo dell’Olympic program for human rights e per questo subì un lungo ostracismo.
Facciamo un salto di dieci anni e ci troviamo davanti la storia di un campione di cui tutti avrete sentito parlare per la sua morte recentissima: Muhammad Ali. Ali, campione nello sport e combattente nella vita, incassò innumerevoli ganci da una società incancrenita dai pregiudizi, che fu però costretta a cedere a una personalità straordinaria come quella dell’americano. Caratterizzato da un carisma trascinante, infuocò gli animi di moltissimi che, incollati al televisore, ammiravano le sue imprese. Ma la gara più importante Ali l’ha vinta con un gigante che per anni si è dimostrato un avversario intoccabile: il pregiudizio. Andate a vedere i filmati d’epoca e troverete il fuoco che ardeva nei suoi occhi il giorno in cui si oppose alla leva obbligatoria per la guerra in Vietnam. Gli fu negato per tre anni di combattere e così perse il titolo. Ma lui non cambiò decisione. Non si arrese mai. Ironiche le sue parole famose sulla vicenda: «Perché dovrei andare a uccidere i vietcong? I vietcong non mi chiamano negro». Spavaldo ma affascinante. Questo era Muhammad Ali, un uomo prima che un campione.